sabato 7 marzo 2009

L'occasione della forma 10^ - Estrela



Ogni giorno Antoni Gaudì partiva solitario dal suo studio; ogni mattina, leggermente gobbo, come per un curioso e impossibile effetto della sua barba folta, bianca e pendente; pensieroso, camminando assente, con le mani incrociate dietro la schiena.
Faceva sempre la stessa strada, attraversava la via delle botteghe, quindi s’infilava nella calle degli orefici, attraversava la rambla “central”, incurante di tutto. Dei rumori che lo circondavano, del profumo di primavera a primavera, dell’odore delle castagne arrosto in autunno, che già al mattino rosolavano sui bracieri esterni dei negozietti alimentari. Era come una figura eterea, un sacro animale randagio che percorreva sempre la stessa strada, alla stessa ora e si dirigeva al lavoro. Affondato nei suoi pensieri.
I negozianti, le donne che a quell’ora del mattino sciorinavano i loro panni, esponendoli in estate alla calura accennata, i bambini che andavano a scuola, finanche i carabineros in coppia, avevano imparato a conoscerlo. A rispettare la sua pregna lontananza. Lui sembrava fosse lì da sempre e mentre gli anni passavano, e il suo incedere si faceva solo leggermente più claudicante, l’ammirazione per quel vecchio architetto cresceva. Trasformandolo in icona, monumento mobile e creativo di una Barcellona viva e reattiva, fucina di arti e mestieri, di bellezze, di gioventù ascetiche.
La gente di quella Catalogna lo adorava, Antoni se ne accorgeva a tratti, quando i suoi impegni mentali gli consentivano di allungare lo sguardo ai lati della strada. E capitava sempre più di rado. C’era sempre qualcuno che gli sorrideva. Dall’uscio di una porta socchiusa, dalla finestra spalancata alla frescura mattutina, dalle carrozze che, silenziose, sfilavano. Un tocco sul cappello del gentiluomo in doppiopetto, un impercettibile inchinarsi di capo della signora imbellettata, un rispettoso rallentare di passo dello scolaro in divisa.
Antoni Gaudì si sentiva Barcellona e Barcellona attingeva da Gaudì il suo istinto a crescere, a farsi bella e importante. In cambio la città proteggeva il suo genio, lo accudiva silenziosa e discreta, quasi che il disturbo di un saluto potesse incrinare quella splendida sinergia. Quello scambio continuo. Nessuno in quelle infinite mattine avrebbe mai osato interferire col passo di Antoni. Ma tutti sarebbero stati pronti ad accoglierlo ad aiutarlo ad un minimo cenno di necessità.
C’era, poi, qualcuno che lo seguiva a distanza. Certo di non essere scorto, visto quell’incedere a capo chino. Qualcuno che lo apprezzava da vicino, ma sapeva stargli lontano e che, anzi, lo sentiva come un compito. Una sorta di missione espiativa.
Sempre in ordine, Antoni si recava al cantiere, magari dopo un intera notte di studio sul suo tecnigrafo, piuttosto che rimbalzato nella sua frau ergonomica. Dove passava ore intere a studiare, a ritoccare, a ritratteggiare i disegni dei suoi collaboratori, coi quali parlava poco e che si limitava a bacchettare tacitamente quando occorreva, nel silenzio di certi drastici tagli a strutture, mosaici, rosoni e figure. Diversamente concepiti dai suoi giovani architetti.

La mattina che ricevette la risposta di Howard, era stata una di quelle più difficili.
I lavori procedevano a rilento in quell’aprile del 1926 e la colpa era di Antoni. Lo sapeva anche lui.
Il suo corpo cominciava a cedere, lento. La sua mente benché lucidissima nelle misure, nei calcoli, nell’aspetto più strettamente tecnico del suo progettare, era come assopita da mesi. Gli capitava di rimanere curvo sulla struttura di una colonna gettata su lucido per ore e non riuscire a concedersi quel tocco di astratta originalità che gli veniva facile, fino a poco tempo prima. Per questa crisi creativa Antoni si era concesso il viaggio a Parigi, per questa crisi creativa si cominciava a sussurrare nell’ambiente che Don Gaudì fosse in declino, troppo vecchio per portare avanti la sua opera.
Troppo spesso negli ultimi mesi la curia gli aveva mandato in cantiere degli strani visitatori vestiti da preti, di più o meno alto lignaggio, fino al limite del porporato. Con la scusa dell’ammirare i lavori. “…Apprezzarne i progressi”.
Troppe volte, ultimamente, gli si erano rivolte domande sul domani, sul futuro, sullo “…Sviluppo di qua..Sulla prossima rappresentazione di là”. Certo nessuno ancora osava mettere in dubbio la riuscita del suo impegno, ma quel cantiere costava tantissimo e il tempo era troppo poco. Anche quello da concedere a un genio assoluto.
Antoni Gaudì lo sapeva, ma questo non gli impediva di constatare amaramente fra sé e sussurrarsi ogni volta: “Domandare a un vecchio del futuro…del domani... Che doloroso affronto”. Poi tornava a piegarsi sul quel senso di rinnovata inadeguatezza che lo faceva soffrire, acuendo il suo mutismo.

Quella mattina il rito della passeggiata solitaria era stato innervato di nuova forza. Fra le carte, imbucate da pochi minuti aveva trovato la calda ed entusiasta lettera di Howard Lovecraft che portava il timbro di Brooklyn, New York.

“Gentile Maestro Gaudì,
non so esprimerle la mia gratitudine per l’attenzione che Ella ha voluto rivolgere a me , alla mia attività. Già tanto per me era osare la speranza che potesse capire il mio piccolo dramma creativo. Ora che lei mostra interesse per la mia opera e mi chiama a sé non posso che rappresentarle tutti i sensi del mio gioioso stupore.
Ho utilizzato il danaro che così generosamente ha voluto inviarmi per ottenere la traduzione del mio ultimo racconto, concepito durante il mio viaggio di ritorno dall’Europa. I tempi della rielaborazione assegnata, come Ella mi ha indicato, al medesimo traduttore, non mi permetteranno di poterne disporre fino al mese di giugno inoltrato. Mese in cui, qualora mi mostrasse gradimento, avrei deciso di accogliere il suo invito e raggiungerla nella sua Barcellona.
Sarà con tutta la mia infaticabile abnegazione che mi metterò a sua disposizione, qualsiasi possa essere l’impegno che Ella ha pensato per me…”

La lettera, oltre che con affettuosi saluti, terminava con l’indicazione di possibili date di arrivo a Barcellona. Una nave, la prima dalla seconda metà di giugno, sarebbe partita giusto alla fine del mese, per arrivare in Catalogna nei primi giorni di luglio. Antoni si disse che quelle date sarebbero andate bene e, una volta in cantiere, diede indicazione a Esteban di preparare il viaggio del suo ospite. Voleva che Howard viaggiasse in una prima classe, da prenotare subito. Consegnò per questo la lettera al suo giovane collaboratore, proprio mentre il cantiere era funestato da un altro brutto episodio.
Un ragazzo di soli diciassette anni, agile manovale, era caduto per venti metri trovando la morte sul colpo.
Antoni ne rimase ancora una volta dilaniato nel profondo. Non era la prima volta che accadeva. Nei decenni erano state parecchie le morti sul lavoro nei cantieri di Gaudì. Una media tragicamente normale per quegli anni, ma ogni volta “l’architetto di Dio” s’incolpava per quello.
In quest’ultimo periodo poi, aveva preso a pensare che ogni incidente sul lavoro in quel cantiere fosse in qualche modo riconducibile alla sua lentezza, al suo creare non più fluido. Era un brutto pensiero davvero. Uno di quelli che ti distrae, ti distoglie dalle tue ambizioni. Un pensiero malsano, come una crepa nel lucido razionalismo di un uomo che così a lungo aveva saputo piegare la sua vena originale, facendola diventare genio.
Ogni morte in un suo cantiere, già da molti anni, costava al maestro l’altissimo prezzo di interminabili notti insonni e il basso costo di una cospicua somma di denaro fatta pervenire anonimamente ai familiari dello scomparso. Di cui Antoni si privava con autolesionistico piacere.
Ma ora non bastava più.
A tacitare i suoi rimorsi, che si sommavano gli uni agli altri, in spirali sempre più vorticose nelle notti catalane.
La sua creatività lo stava abbandonando. Di più: stava scomparendo, lenta, negli anfratti di una mente invecchiata che, nelle tappe di un inevitabile regresso, era ora retrocessa a una normalità che Gaudì non poteva permettersi.
Così spesso, ai piedi di un lucido, in calce a un appunto personale sul suo taccuino, annotava frasi solo apparentemente senza senso. Lamenti sommessi, confessioni deliranti.

“…Ci sono troppe volte, troppe guglie, troppi rosoni da concepire…Ho bisogno di tempo, non posso invecchiare così…Chi continuerà il mio lavoro? La mia ambizione non avrà prosecutori. Sarà vinta da se stessa…Vinta da se stessa”

Quella sera Antoni si attardò solitario al cantiere, attese che l’ultimo dei capomastri si congedasse, controllate le macchine e gli attrezzi, e stette. Solo. Seduto su grosso blocco di pietra.
Appoggiò il mento sulla mano e il gomito sulla gamba accavallata, in una posa di serenità mentre, dentro, l’anima si accartocciava su se stessa.
Attese le luci notturne filtrare dalle pareti in progetto, prese ad accarezzarsi la barba poi annotò sul suo taccuino:
“Il signor Howard si occuperà di soccorrere la mia creatività, darà parole a forme che ancora non esistono, aprirà spazi in questo luogo, allungherà dimensioni e ricombinerà colori. Gli stessi che io avrei concepito se non fossi così vecchio. Io gli darò le mie conoscenze. Piegherò il mio sapere tecnico al suo talento, gli offrirò la mia esperienza, lo erudirò, ne farò uomo diverso. In grado di continuare tutto questo.…Quando vedrà tutto questo…Quando vedrà tutto questo, capirà il suo compito. Non avrà bisogno di parole. Nessun altro che io conosca è in grado di farlo”.
Passò le ore girando per il cantiere deserto, illuminato di riflesso dalle luci delle strade attorno, da uno spicchio di luna che si rifletteva sul marmo bianco e ricadeva, quasi impercettibile, nei meandri della sua splendida creatura. Una notte di emozioni, di decisioni, di coraggio infinito.
Di forza fisica incredibile in quell’ultrasettantenne che stava smarrendo sé stesso.
“Mio Dio, a cui ho dedicato la mia opera – fu il suo lamento interiore, che divenne preghiera sommessa, vergata sul taccuino – sorreggimi, accompagna il mio senno, non farmi smarrire. Dammi la forza di dettare la mia opera futura, il coraggio di cercare nuova linfa per le mie idee. Mio Dio sostieni la mia boria, assegnami altra presunzione, spingi il mio seme ambizioso, rendilo fecondo nel ventre florido di un’altra mente, di un altro cuore. Non lasciare che tutto questo si perda, dimentica la mia povera vita, lascia che i miei anni spesi per te siano persi, ma non lasciare che siano le idee a perdersi. Quelle non appartengono a me. Sono tue, come tuo è tutto questo. Ti prego mio Dio, benedici il mio lavoro in questo momento difficile”

Erano quelle le prime parole in prosa comprensibile che venivano segnate su quel libretto, gravido per altro di disegni, simboli, calcoli e schizzi pasticciati.

La mattina dopo era domenica. Esteban Labruna fu svegliato nel suo monolocale da colpi secchi alla porta. Si alzò con i capelli in piedi e gli occhi gelatinosi e andò ad aprire con il fiato rancido di chi aveva bevuto un po’ troppo la sera prima.
“Ci scusi signor Labruna deve venire con noi” Fecero due uomini corpulenti e vestiti in modo dimesso.
“Che c’è?” Rimandò il giovane, perplesso e anche un po’ impaurito, mentre metteva a fuoco.
“Ci ha dato il suo indirizzo il portiere dello studio” Fece uno di questi, mentre con le mani massacrava le falde del cappello e ondeggiava impercettibilmente.
“Venga con noi, prego. Forse non c’è molto tempo…”. Esteban aveva riconosciuto Rinaldo, uno dei capimastri del cantiere. Uno di quelli più in gamba.
L’altro, sconosciuto, mentre Labruna si vestiva alla meglio, quasi balbettando cominciò a spiegare lentamente.
Saliti su un furgoncino polveroso, i tre affrontarono le strade semideserte di Barcellona, spingendo al massimo lo sbuffoso mezzo. Labruna cacciò fuori il viso dal finestrino come per riprendersi dall’ennesimo sonno disturbato e problematico. Addosso aveva ancora l’odore bestino del sesso di Estrela. Una ballerina portoghese dal seno prosperoso e dalla gamba lunga che, a dispetto della sua avvenenza, gli era costata così poco.
Giunti in una zona centrale della città, Rinaldo arrestò il mezzo bruscamente e i tre scesero di corsa, inforcando una via stretta a lunghe falcate. Proprio mentre la via si allargava, la loro corsa si fermò spalle a un nugolo di persone silenziose. Ferme come in contemplazione.
Si fecero largo bruscamente.

“Ecco Signor Labruna. E’ così da almeno quattro ore…Da poco prima che il sole sorgesse. Lo sappiamo perché il primo ad accorgersene è stato uno spazzino che abita poco distante. Nessuno ha avuto il coraggio di fare nulla.”
Esteban sentì che il cuore gli batteva forte in gola, gli sembrò come una vampata di vergogna che lo cingeva da dietro e lo faceva roteare.
Rimase a bocca aperta, rosso in viso, lasciando che lo sbattere di palpebre durasse un eternità.
Come per non vedere. Non capire.