domenica 22 marzo 2009

L'occasione della forma 14^ - Non a Lisbona


Esteban accavallò le gambe con grazia, poi giunse le mani e si portò i due indici alle labbra, inumidendoli leggermente, come a rendere più reali i suoi pensieri.
Davanti a lui Antoni Gaudì era seduto sul suo letto, schiena leggermente curva, mani unite fra le cosce, sguardo nel vuoto. Dimesso, come lo aveva trovato poche ore prima; sfatto nell’abito e nel viso sporco. Nella barba arruffata e oblunga.
In due ore aveva cercato di estorcergli qualche parola di riferimento, solo qualche cenno verbale che gli potesse annunciare il ritorno nel suo corpo. Aveva insistito sussurrando, ripetuto ad alta voce. Ma nulla.
Così Gaudì stava lì da un po’, come vegetale. Altro da sé, dal suo genio. Ogni tanto alzava il capo e si guardava intorno disorientato, prima di tornare ad accucciarsi in quello che sembrava un vuoto assoluto.
Esteban lo aveva portato direttamente nel suo piccolo appartamento, senza passare dallo studio, senza fare tappa nella casa del suo maestro, nella quale, giudicò, sarebbe andato da solo. Più tardi, magari la notte, a raccattare qualche abito di Antoni, i suoi schizzi domestici. Poi, aveva pensato frenetico, sarebbe andato al cantiere e avrebbe recuperato tutti i lucidi, i libri di calcolo e di progettazione. Intanto aveva sottratto dal pastrano di Antoni il suo taccuino, i suoi documenti e i pochi oggetti personali e li aveva riposti in una scatola di legno sotto il mobile, quella dove c’erano “le protezioni” al suo piacere. Infilate ordinatamente una sopra l’altra “ a mattoncini” e pronte all’uso.
Compiute queste operazioni si era seduto. Luccicante nella sua lucidità. Freddo come ferro al gelo.

“Bene signor Labruna – gli aveva fatto il prelato segaligno, dalla pesante croce d’argento al collo – i suoi resoconti sono abbastanza dettagliati. Nondimeno qualcosa ci sfugge Labruna. Ci sono..C’è qualche discrepanza con altre notizie che abbiamo noi. E francamente sono sconcertanti.”
“Discrepanza. Ma…”
“Discrepanza, Labruna. Non penserà davvero che un compito tanto delicato per la curia, per la Catalogna sia stato affidato solo a lei?” Qualche mese prima, durante uno dei soliti colloqui mensili, sempre più rapporti militari, Esteban era stato incalzato, messo alle strette.
“Da solo no. Ma io riporto quello che so e che ho visto…”
“Forse non vede abbastanza. Oppure forse non ha sposato questa causa con la necessaria concentrazione. Noi ci rendiamo conto che è un compito non facile, ma pensiamo anche ci voglia tutta la sua attenzione. Un attenzione che fino ad ora non ha messo”.
“Ripeto Eminenza, io…”
“Lei, Labruna, ci deve portare fatti. Ci deve dire come mai il cantiere è ancora così indietro, i lavori non procedono. Gli operai, i manovali – il tono dell’uomo di chiesa si era fatto arrogante – restano giorni a spostare materiali, i materiali che noi paghiamo, nel tempo che noi paghiamo…Che i fedeli catalani ci hanno affidato. Lei dice e non dice. Spiega e non ci fa capire. Abbozza, omette, distoglie. Finirà…”
Esteban aveva guardato il prete dritto negli occhi, come con una vampata di ira repressa e il prelato aveva attenuato il tono
“…Finirà che dovremo togliere i lavori a Don Gaudì, a dispetto di Barcellona e della sua gente. Finirà che dovremo toglierle il suo incarico”
“Non lo potete fare” Aveva fatto timido
“Non lo possiamo fare? Non possiamo? Guardi…”
L’uomo vestito di nero era tornato, nervoso, dietro la sua scrivania di mogano, aveva aperto il cassetto e ne aveva tratto qualche carta stropicciata, cominciando a leggere vermiglio:
“Antoni Gaudì resta sedici ore…SEDICI ORE a osservare un arco del lato est…Antoni Gaudì parla di abbattere e sbancare parte della navata ovest…Antoni Gaudì, parla di alzare pareti centrali fra le navate…E poi ancora: Antoni Gaudì si trattiene al cantiere fino a notte inoltrata…Le basta?…Mi spieghi ora cosa si può vedere LA NOTTE in un cantiere? Me lo spieghi. E mi spieghi anche perché queste note non ce le ha portate anche lei”
Esteban serrò i pugni. Avrebbe voluto prenderlo per il collo e schiacciarlo al muro, avrebbe voluto infilargli due dita sotto il mento e impedire a quella lingua schifosa di roteare in quel periodare vomitevole, per orecchie cristiane.
Avrebbe voluto gridargli in faccia. Una volta. Per tutte:
“IO NON SONO UN VERME. IO NON SONO UNA SPIA. IO AMO QUEL UOMO…
Che ha in sé il mistero della natura mutevole. Della forma canonizzata in nuovi parametri dettati da Dio. Che abbatte barriere umane ed edifica misure divine. Che vale una città intera, composta da tanti uomini. Tanti uomini piccoli e ignari. Come me. Come te, che sei una bestia immonda”.
Non disse nulla di tutto questo. Fece un unico respiro che fu percepito come doppio, d’asmatico.
Fu invece un respiro che svoltò tutto.
“E’ vero. Eminenza. Ha ragione”
“Lo so che ho ragione. Lo so perfettamente. Per questo voglio dirle una cosa: ho qui alcuni dei suoi ultimi conti. Vedo che le sue abitudini libertine non l’abbandonano Labruna…Neanche grazie alla frequentazione con Don Gaudì. Se suo padre la vedesse…- fece un sorriso viscido e appiccicoso che rimase attaccato a Esteban - Deve soldi ai locali più prestigiosi di Barcellona. Ristoranti, atelier di moda, c’è perfino un negozio di articoli musicali. Lei compra dischi e grammofoni o li regala Labruna…Ma non ascolta la musica che vogliamo noi.
Questi conti sono nostri. Adesso. I titolari sono fedeli che accettano ben volentieri di differire i pagamenti se noi lo chiediamo. E abbiamo intenzione di chiederlo. Ogni due mesi, come oggi…”
Esteban sorrise di gratitudine e spalancò gli occhi stupito.
E imbeccò, candido: “Don Gaudì è amatissimo dalla gente. Non passa giorno che non arrivi qualcuno a portargli regali, ex voto per il cantiere, mangiare…”
“Barcellona è una città dal grande cuore – aggiunse, tornato calmo, l’uomo di chiesa -. Un cuore talmente grande che può portarla alla rovina. Nei costumi e nella fede. Il particolare di cui ci sta riferendo, ci è noto da anni. E sappiamo anche che ultimamente è aumentato questo via vai, mentre i nostri lavori.. I nostri lavori sono fermi. Non si sono spostati di una virgola negli ultimi sei mesi.
Antoni Gaudì è invecchiato, è malato, è infermo nella mente. Questo è un danno che non ci possiamo permettere…”
Il prete deglutì dalla rabbia e si sedette alla sua scrivania, poi trasse una penna da un cassetto e la poggiò sul tavolo, prima di ricominciare a parlare.
“Stiamo raccogliendo documentazione su di lui, per capire di che origine è la sua assenza, il suo rallentare. Ormai è che chiaro che l’architetto ha bisogno di cure. In ogni caso non è più in grado di portare avanti il suo lavoro, la sua missione. Che è la nostra missione”
“E come posso aiutarvi meglio?” Chiese timidamente Labruna
“Ci servono prove. Prove inconfutabili della sua pazzia. Deve portarci prove! Il nostro accordo iniziale è ancora valido. In più ci sono questi.. Questi conti. Li possiamo estinguere tutti. Ci porti qualcosa di concreto”
“Antoni Gaudì è amato dalla gente, eminenza. Non si può allontanare dalla sua opera, la gente di Barcellona non lo approverebbe…Non potrà mai accettarlo”
“Non si può? Si deve!…Eppoi lo faremo curare.E’ già tutto predisposto per lui. Lo faremo portare a Lisbona. Lì il dottor Egas Moniz lo curerà coi suoi nuovi metodi chirurgici. All’Università di Lisbona sono all’avanguardia in queste cose. Barcellona…La Catalogna capirà. Capirà perché deve capire. Non c’è bisogno di santi viventi in questa città. C’è bisogno di fedeli che facciano il loro dovere, che siano in grado di farlo. Il povero Gaudì non lo è più”
Esteban guardò la croce argentea penzolare sul petto dell’uomo. La osservò attentamente, mentre il suo sguardo si fece feritoia.
Poi puntò, sereno, sull’eminenza e abbozzò un sorriso, avvicinandosi.
“Grazie di tutto. Sempre al vostro servizio” E si chinò baciando la mano ossuta del prete.
Nel prendere congedo, balbettò un “Presto e bene” di variegata formula
La sera stessa, scoprì sulla rambla, interrogando un suo amico medico, di che natura fossero le attività sperimentali di questo Egas Moniz.
“Oh Esteban – gli rispose l’amico, mezzo intontito dalla cerveza – Che nomi mi fai? Mi parli di lobotomia in una notte come questa? Pensa a divertirti”.
Quella notte Esteban Labruna, non bevve nulla. Si divincolo dall’abbraccio lascivo della sua compagnia e andò sotto lo studio del suo maestro. Stette lì, al buio, appoggiato a una colonna davanti al palazzo, osservando la luce provenirne dalle finestre, fino a quando non si spensero.
Non aveva più desideri, nemmeno l’hashish che aveva fumato solitario in quella notte d’inverno, poté attenuare quel senso di determinazione che chissà da quanto, inespresso e latente, si dibatteva dentro di lui. Una determinazione esondante, che aveva in sé il senso del trascinare via ogni pulsione diversa da quella che lo aveva condotto lì. Come fiume che si distende e fa sua terra che non dovrebbe appartenergli, incurante di argini stabiliti dal comune senso del comportarsi, del rischiare, dell’emozionarsi.

Osservò il suo maestro in quella posizione, si alzò, gli mise le mani sul capo, scrutando attentamente la sua nuca, la sua cute, l’incavo dei suoi occhi. Con una dolcezza infinita, mentre il suo sguardo scorreva veloce su ogni particolare della sua testa. Antoni si lasciò fare tutto, come fosse una pianta grassa. Il giovane Labruna quindi espirò.
“Dio ti ringrazio. Nessuno lo ha toccato” E strinse la testa dell’anziano al suo petto pieno di vigore.

Si recò allo studio a notte fonda, come un ladro sul proprio posto di lavoro. Arrotolò lucidi, impilò disegni, raccolse carte e documenti. Quindi si avvicinò alla cassaforte e trasse dal taschino del panciotto un foglietto che aveva preso ad Antonì. Fece scattare la combinazione.
Poi tornò a casa e lo ritrovò esattamente com’era. Spogliò il suo maestro, lo lavò accuratamente, gli mise delle garze all’altezza delle ginocchia, imbevendole di tintura di iodio. Quindi attese che il liquido si asciugasse e lo rivestì, piano, di abiti puliti, prelevati allo studio. Fece un fagotto con quelli vecchi.

Alle prime luci di un alba due uomini sottobraccio, uno giovane alto, dal baffetto virtuoso, l’altro anziano e dalla folta barba bianca, attraversarono a piedi parte della città. Sconosciuti alla vista dei netturbini, dei panificatori, dei carretti di frutta e del profumo di un’estate che si annunciava, di lì a poche settimane, di un caldo che ti faceva stare bene.
Esteban in quella lunga passeggiata, dopo aver gettato in un cassone i vestiti sporchi di Antoni, cominciò a parlare al suo maestro. Mentre Don Gaudì lo assecondava nel passo, cinto alla vita dal suo abbraccio, con lo sguardo a terra.
“Don Gaudì ritorni in sé, la prego…Torni con me. Si appoggi a me, si serva di me”. Non c’era lamento, solo parole
Sfilarono poco prima dell’alba piena, davanti al cantiere. Esteban si fermò un istante e giudicò sereno la maestosità di quell’opera che appariva quasi completa, nella prospettiva del loro passaggio, in quello nuovo gioco di luci albeggianti. Una prospettiva che lo emozionò forse per la prima volta, da quando l’aveva vista, da quando poi, viscido, si era incollato alle terga del suo geniale padrone. Antoni sollevò lo sguardo assente, solo per un istante. Quindi ricadde nel suo mondo.
Esteban diede uno strattone impercettibile, come ad aumentare la velocità del passo. Don Gaudì lo assecondò come un sacco vuoto.
Un’ora dopo, mentre le strade ricominciavano a riempirsi, Labruna picchiò più volte la gorgone di un palazzo dalla gradevole facciata liberty. Attese e sentì poi una finestra aprirsi. Alzò lo sguardo e vide una mano di donna richiudere i battenti. Attese ancora.
“Già mi cerchi?” Aveva riso, la giovane donna al di là del portone mentre stava aprendo con sferragliare di serrature
“E dimmi un po’ – aveva aggiunto prima di spalancare la propria vista – sono io che ho sbagliato a dirti dove abitavo l’altra sera? Oppure sei tu che non sei mai sazio…”
L’ultima frase era caduta attonita e sconcertata alla vista della donna che si era trovato davanti il suo amante di una notte, con un vecchio sottobraccio. Poi subito si era ripresa, ironica e ficcante.
“Carino… Ma non ti sembra un po’ presto farmi conoscere tuo padre?”
“Estrela, mi serve il tuo aiuto”
“Amancito. Spero che tu non abbia creato soverchie illusioni in questo signore…Certe cose vengono bene solo in due”
“Eddai…”
La donna, moglie portoghese di un capitano di lungo corso andaluso che non c’era mai, mente vivace e irriverente, spalancò la porta che inghiotti nel portone i due. Prima di chiedere di Antoni, nell’atrio Estrela squadrò da capo a piedi Esteban. Il panciotto sopra una maglia bianca a girocollo, una giacca nera sformata, il capello in piedi, un accenno di barba sfatta.
“Che ti è successo? Te l’ho fatto io questo effetto, oppure è che già ti manco?” Sorrise beffarda, che aveva già capito che aiuto fosse venuto a pietre il suo amante.
Esteban le spiegò, tacendone il nome, che il suo padrone era in fuga. Fuggiva, dopo un tracollo emozionale, da persone importanti. Pericolose per lui. Manco a dirlo gli serviva un riparo, un alloggio sicuro, per almeno un paio di giorni. In attesa di sistemare le cose.
Estrela lo guardò seria per la prima volta e giudicò forse in un istante che per una volta potevano essere quelle le emozioni giuste per lei. Forse pensò che Don Gaudì fosse in fuga dalla legge, da un tracollo sì, ma finanziario. Non ebbe importanza. Esteban le piaceva, il vecchio con lui le incuteva tenerezza, era già lunedì mattina e il fine settimana successivo era ancora così lontano. Per altre emozioni. Così fece un segno col capo ai due, come a dire: “Salite con me”
Nel farlo diede sollievo al giovane Labruna che poté permettersi di notare la vestaglia di Estrela e il suo bellissimo decolté. Salendo le scale, l’ondeggiare dei suoi fianchi, il suo voltarsi solare non rasserenarono Esteban, ma per lui fu come sentire un profumo amico.
Antoni fu sistemato in una delle tante stanze vuote della casa. In una camera accogliente, ma fredda. Esteban stette un po’ con lui, lo fece stendere sul letto e gli levò le scarpe. Poi si passò una mano fra i capelli appiccicati e si sentì stanco e affamato.
Estrela, lo spiò dalla porta e quando lui la vide, gli sorrise con i suoi occhi tagliati all’insù e le sue guance rosa di prima mattina.
“Vieni Amancito” Le fece abbracciandolo
“Esteban…Mi chiamo Esteban” Sussurrò lui
“Io Estrela. Continuo a chiamarmi Estrela”. Lo prese per mano e insieme scivolarono in camera da letto. Lui non sentì più fame ne stanchezza.