giovedì 26 marzo 2009

L'occasione della forma 15^ - Il pitale


“Quanto tempo? Quanto tempo impiegherà la notizia del maestro ad arrivare alle orecchie sbagliate?” Pensò Esteban, corrucciando la fronte quel pomeriggio. Al suo fianco il corpo morbido di Estrela pulsava docile e rosato. Di una nudità scevra dal volgare, più vicina a una bellezza divina che a qualcosa di terreno. Con la mano su un fianco della giovane donna, Esteban fissò il soffitto e non ebbe tempo di bearsi di quella mattina di passione. Destino particolare il suo. Proprio mentre la sua spinta erotica, la sua libidine navigata virava verso accenni strani, per lui inconsueti, il pensiero di un anziano lo rapiva. Ne proiettava la mente ben al di là dell’immanente fascino del sesso più travolgente. Era come il pagamento di un dazio, lo sfiorò il pensiero. Come se, ora che il suo giovane cuore cominciava a sentire il bisogno di nuova crescita, il destino dovesse portarlo lontano. Esteban non si conosceva bene, non sapeva di sé più di quanto un uomo giovane possa sapere dei suoi desideri più nascosti, pronti a emergere, dell’uomo maturo che ne prenderà il posto, dell’uomo anziano che tirerà la riga.
Si alzò nudo e sentì freddi i piedi sul marmo. Spiò ancora Antoni e lo vide dormire tranquillo, bocca aperta e mani incrociate sul ventre. Lo osservò sereno per la prima volta da ore . Ne giudicò sano il riposare in quella penombra pomeridiana e poi si ritrasse, quando Gaudì si voltò a occhi chiusi. Socchiuse la porta e tornò da Estrela. La prese ancora e fu come la prima. Una magnifica “prima” sul palcoscenico delle sue emozioni sconosciute.
Lei lo guardò, sopraffatta da quel copro agile ed esperto che pure si muoveva di un ritmo nuovo, lontano dalla pedissequa metronomìa del piacere fine a se stesso, più prossimo ad un inarcarsi, ad un flettere armonico di strumento a corda. Percezioni di donne che anche nelle più giovani, agiscono e si dispiegano molto prima che nell’uomo, nel ragazzo, nel giovinetto.
I loro sguardi trasparenti s’incrociarono una prima volta come non si fossero mai soffermati prima, ed una seconda, alle prime domande, ed una terza, alle infinite risposte.
Fu un piacere nuovo. Da non descrivere, da custodire nel cuore e nella mente

Esteban attese la notte per muoversi cauto. Uscì sbarbato e si avviò, passo svelto, col mazzo di chiavi in tasca e poca voglia di perdere tempo. Arrivò al cantiere deserto, quindi aprì i cancelli e si chiuse nell’ufficio di Gaudì. Ripetè la scena dello studio: arrotolò lucidi, impilò fogli, estrasse taccuini scarabocchiati. Sistemò tutto in una valigia e se ne andò, non prima di aver gettato uno sguardo a quel luogo. Non ebbe timore di non rivederlo. Lo giudicò bello, di quella monumentalità incompiuta che gli era sempre sfuggita, di un fascino incompleto, capì che il proprio sentire stava mutando, verso nuovi confini. Non si chiese perché. Già lo sapeva.

“Che pensi di fare Amancito?” Le chiese provocante la sua ospite, davanti a un piatto di frutta, mentre mordeva un acino d’uva bianca. “Casa è grande. Alfonso il mio maritino, tornerà chissà quando… E in ogni caso avverte, con almeno due settimane d’anticipo”
“Mi stai invitando a convivere con te?” Sussurrò sorridendo Esteban, pensando di aver colto nel segno. Colse come un ceffone.
“Ti sto invitando a non fare l’idiota” Rilanciò la donna con insuperata ironia. I suoi capelli raccolti sulla nuca, parlarono più di lei.
“C’è il mio padrone…”
“Non coglionarmi Amancito…Il tuo padrone non c’entra nulla. Che cosa intendi fare?”
“Non so. Non so dove andare”
“A me non importa nulla dei tuoi problemi Amancito –aggiunse la donna diventando seria-, ma voglio che tu sia chiaro con me. Il tuo padrone è già nella mia casa e dorme di là. Io sto parlando con te… Chi ti cerca?”
“A me? Nessuno” E aveva deviato lo sguardo
“Che stronzo” Aveva biascicato, Estrela.
“Non cercano me. Cercano lui. Cercheranno anche me solo fra qualche giorno”
“Una occasione per non fare nulla. Niente…”
“Che dici?” Chiese Esteban aggrottando le sopracciglia.
“Se ancora non ti cercano, non fare nulla. E’ chiaro. Fai le cose che fai sempre. Nessuno sa che ci conosciamo, lui non può essere qui, ma qui è al sicuro.
Anche se ancora non mi hai detto da “chi” è al sicuro.
Tu torna al lavoro, alle cose che fai ogni giorno...- rise brevemente coi suoi denti bianchissimi – Sì, anche al “Forat vermell”…Fai quello che fai sempre, torello”. E con la sua mano affusolata gli aveva stretto la coscia, fino a sfiorargli l’intimo.
“Possibile che con te, non si può fare mai le persone serie?”
“Possibile che non veda nulla di serio in tutto questo, Amancito. Tu che scappi con tuo nonno da non si sa chi e vieni a rifugiarti da me…”
“Beh, mi pare che non ti sia dispiaciuto Estrelita”
Con la velocità di un gatto che graffia, la donna gli rifilò uno schiaffone sonoro che voltò la testa a Esteban. “Vulgar canalha!” Gli sussurrò a denti stretti, durante l’operazione. “Vai fuori da casa mia! Lascia il vecchio e vai!”
“Dove vado? – Esteban l’aveva guardata cattivo – E perché dovrei lasciarti Don…” Sembrò mordersi la lingua.
“…Don?” Fece Estrela tornata maliziosa
“Ma vattene!” E si era ritratto sdegnoso al sorriso della donna.
Quella notte dormì per terra nella stanza di Antoni Gaudì col capo all’altezza del pitale laccato. Poi, poco dopo le tre del mattino, una figura esile e profumata lo prese per mano e lo condusse in quel letto caldo che ormai conosceva bene.
Lui si fece portare.

La mattina dopo, Esteban si alzò di buon’ora. Diede un bacio al gluteo esposto di Estrela e uscì. Tornò a casa a cambiarsi d’abito a tentare di riprendere una finzione di vita normale. Si ripetè che, forse, avrebbe potuto argomentare sul soccorso all’architetto anziano, riferendo di aver portato Antoni allo studio e di essersi assicurato della sua ritrovata lucidità e là di averlo lasciato solo dopo alcune ore in quella domenica pomeriggio. Avrebbe mostrato stupore, rispetto al perdurare della sua assenza e avrebbe giustificato la propria dal cantiere e dalla penombra del suo maestro, adducendo vacue spiegazioni, di non meglio precisati esami medici, con la subdola intenzione di lasciar credere all’ennesima sbronza ingiustificabile, smaltita a casa della cocotte di turno. Era il suo ruolo. Per una volta fu felice d’interpretarlo a tutto tondo.
Si disse che era strano. Per la prima volta non solo mentiva per se stesso, ma per proteggere qualcosa, qualcuno. Quelle bugie, ripetute ai capomastri del cantiere, ai funzionari della curia, agli architetti giovani, ai manovali, suonarono diverse. Meno ripugnanti forse, più difficili da reggere probabilmente. Avrebbe avuto voglia di gridare al mondo intero che l’architetto Antoni Gaudì, ikl padre di Barcellona, l’anima creativa della Catalogna era in serio pericolo, avrebbe voluto sussurrare ai vigorosi operai del cantiere che lo idolatravano, che brutta brutta gente lo stava inseguendo, che lo volevano portare a Lisbona, volevano bucargli il cervello e fargli uscire il senno.Estirpargli il genio. Minarne l’anima. Definitivamente.
Avrebbe voluto, avrebbe potuto.
Poi pensò al clamore, ai problemi che questo avrebbe comportato per il cantiere e per Antoni stesso. Tratto in salvo dai luccicanti arnesi di Egas Muniz, ma condannato a diventare un’icona. Prigioniero della sua protettiva gente, fagocitato dalla massa informe, che confonde calore con spasmo, affetto con asfissia, che legge gioia, ma ti trasmette oppressione.
Si disse, mostrandosi sbalordito per la sparizione dei progetti e delle carte allo studio e al cantiere, che l’unica strada era quella di fingere, fingere e ancora fingere. Finché avesse potuto. Finché non lo avessero scoperto. Il tempo era l’unica cosa di cui aveva veramente bisogno Antoni.
Tempo per sedimentare il collasso del suo intelletto, giorni per riprenderselo. Forse. O forse per rinascere di un nuovo intelletto. In chissà quale direzione o forma, sotto quale pulsione creativa, di quale anima cambiata, ma rimasta se stessa.
In questo credeva, mentre continuava a fingere, mentre spalancava narici nell’ufficio svuotato del creare del maestro, o spalancava gli occhi incredulo, quando i funzionari della curia la pressavano con le loro domande incessanti, ora dopo ora. O quando lo chiamarono allo studio di Antoni e dovette andarci a testa bassa, come a simulare sconcerto e stupore. I carabineros lo interrogarono sospettosi. Lui spiegò calmo, argomentò, aggiunse, indirizzò fintamente. Lucido come una croce d’argento che penzola su un petto nero.
“Io non so nulla..ero a Cadaquès..Ho problemi al fegato, ieri sono andato dal medico di famiglia a casa mia..Don Gaudì è una persona originale, tornerà…Tornerà ne sono sicuro..” .
Uscendo dallo studio dell’architetto di Dio, non ebbe neanche il minimo dubbio. S’indirizzò al suo disordinato appartamento, accendendosi un mozzo. Camminò piano all’imbrunire e non si voltò mai nelle strade affollate di gente.
Divagò con qualche conoscente al passaggio sulla rambla, contattò amici comodamente sistemati ai tavolini in attesa della notte, rimandò a discorsi futili ed evanescenti per quella sera.Visse qualche ora di una vita che non era più la sua. Dopo cena entrò a casa, si sciacquò il viso e si buttò sul letto. In attesa.
Prima di uscire, aprì la scatola del “piacere fine a se stesso” e ne trasse i documenti di Gaudì, infilandoseli nella tasca interna del gessato grigio, quindi uscì di nuovo.
A metà strada si fermò nuovamente, con uno scatto. Si chinò e si allacciò una scarpa. Sorrise spaventato per un attimo. Si fece forza. Ritrovò la calma.

Quel martedì sera “El Forat Vermell” offriva danze di uomini travestiti da donna. Esteban si buttò il quel fumoso agitarsi di teste come pistoni e quasi subito, allontanatosi, vide il pesante portone dal quale era entrato pochi secondi prima, riaprirsi di nuovo. L’agitarsi della massa lasciva gli celò la vista ai visi.
Afferrò il primo bicchiere a tiro, scippandolo alla mano di una gentildonna equivoca e se lo bevve, avendo cura di farsi cadere più di una goccia sul costosissimo abito. Ripeté altre volte il giochetto, mentre svenevole e sgusciante salutava amici, conoscenti ed esperienze sessuali di una notte.
Dopo un paio d’ore di danze ritmate, di chiacchiere surreali, di hashish non inspirato, barcollando spinse via un suo amico dal muro di mattoni rossi e, per un attimo smise di fingere.
Il suo occhio destro schivò il suo abituale vedere e si poggiò dove doveva. Mentre la musica assordante della piccola orchestra dettava i tempi del suo scrutare, le “danzatrici” accudivano la folla vociante e da quell’ibrido, irreale microcosmo notturno, emergevano un paio di figure sorridenti, di uomo e di donna, troppo canonicamente vestite in quel piccolo mondo, dove la normalità dell’abbigliarsi, sfumava quasi sempre nell’astrusità del singolo dettaglio.
Si levò barcollante, ondeggiò con l’ennesimo bicchiere in mano e si poggiò su uno di quegli uomini vestiti da donna, offrì la vista della sua lingua che accarezzava quel lobo maschile, mentre con la destra gli infilò qualcosa nella mano e con la bocca sussurrò parole sorridenti. Poi si allontanò scansando e barcollando. Ancora.
Pochi minuti dopo il gruppetto delle ragazze dal petto villoso si buttò sui due ospiti inattesi del “Forat Vermell”, fra smancerie, gonne alzate e mani dappertutto, Esteban infilò la porta, volò sulle due rampe di scale e si dileguò correndo nella notte di Barcellona.

Mezz’ora dopo giunse veloce davanti al portone di Estrela che il suo fiato era ormai un ritmo regolare di doppi respiri.
“Ola Amancito… - lo guardò Estrela, malgrado le parole irriverenti, il suo tono era diverso – Che hai? Hai fatto una corsa perché ti mancavo? Oppure avevi dimenticato questi?” E con la mano aveva estratto dalla tasca della veste una coppia di condom color carne.
Esteban la guardò spiazzato, ancora senza il suo fiato. I suoi occhi lanciarono un “Sei proprio una stronza” che cadde nel vuoto. Estrela gli sia avvicinò silenziosa e quindi lo prese per mano.
“Vieni con me, tesoro. Ti faccio vedere una cosa”
Nel lungo corridoio, la donna cominciò a raccontargli.
“Questa mattina sono entrata nella stanza di tuo nonno. L’ho trovato come l’ho conosciuto. Con quello sguardo strano, perso. Era seduto sul letto. Gli ho fatto bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ di pane. Lui ha mangiato, senza parlare. Ancora”.
Estrela si fermò davanti alla porta chiusa della stanza di Antoni e continuò a raccontare, senza aprirla: “L’ho accompagnato in bagno e l’ho lasciato solo. Nella sua camera c’era puzza. Ho aperto le finestre e ho fatto cambiare aria. Prima che Antoni ci tornasse, poi, ho sistemato dei fiori profumati in un vaso…” Si fermò.
Esteban la osservò, stupito per tutti questi dettagli.
“…Poi lui l’ho fatto tornare nella camera e l’ho lasciato lì. Ho fatto tutto io, ho mandato via le due persone che mi lavorano in casa. Dopo qualche ora sono tornata per dargli il pranzo..”
“Brava – fece Esteban – come una perfetta padrona di casa”
“Mi coglioni eh…Amancito. Ridi. Ridi di questo” E aprì la porta

Antoni Gaudì era seduto sul letto con il suo sguardo perso. Intorno ai suoi piedi, fiori sbucciati, petali consunti e sfruttati. Erano le rose di tre colori diversi, le calle color latte, le mimose gialle della composizione variegata con la quale Estrela aveva voluto aggraziare la presenza dell’anziano in quella camera fredda. Fiori dilaniati, desfogliati, calpestati secondo un utilizzo che sfuggì a Esteban e che lo fece sconcertare. La luce delle due lampade nella camera illuminavano quello che una volta era stato un genio che aveva sbranato dei fiori. Sbranato dei fiori?
“Che c’è Amancito? Ti è cascata la mascella?” Incalzò antipatica Estrela che si prendeva la sua rivincita e che attese, godendosi un po’ sadica un po’ intenerita, lo spettacolo del suo giovane amante che prese a passeggiare cauto nella stanza, portandosi una mano a grattarsi la testa brillantinata.
Poi, quando la ragazza ne ebbe abbastanza di quello spettacolo astruso e ridicolo, proruppe di nuovo: “E ancora non hai visto il meglio…”.
Si avvicinò al letto, si chinò e ne trasse un oggetto.
“Tieni Amancito. Questo una volta era un pitale da notte. Ora dimmi tu: cos’è?…Ma pensa bene a cosa dirmi. Prenditi il tuo tempo, qui dentro…E pensa bene a cosa dirmi” Poi uscì, lasciandolo stranito con quello che una volta era un pitale da notte.

Esteban si sedette sul letto, con la lentezza di un vecchio artritico. Poco più in là del suo maestro, vicino a una delle lampade. Quindi, con la mano destra a coppa, sollevò l’oggetto che le aveva dato Estrela. La forma era rimasta quella di un pitale, ma solo quella.
Quella che una volta era una laccatura asettica e industriale, ora era uno scrigno aperto d’inconcepibile bellezza. Mosaico indescrivibile di colori vergati e placche rettangolari di origine organica e floreale a stilizzare forme animalesche di ogni genere, nella miniaturizzazione di curve e rette diversamente combinate. Dominante il tema della salamandra dal corpo multicolore, dall’espressione priva di aggressività ed in grado da sola di dare un’impronta al senso del disegno. Una forma mutuata, come artista che ripropone se stesso, dal Parco Guell di Barcellona, rimastane simbolo incontrastato. Accanto a lei meduse, esseri umani stilizzati si dispiegavano nell’intorno, come una danza di colori e messaggi onirici dall’incomprensibile senso. Se non quello dell’esplosione della bellezza naturale. Che si decomponeva e ricomponeva senza artifici umani, se non quello dell’idea artistica con la chimica essenziale dell’urina e della saliva.
Esteban la osservò con cura portandola più vicina a una fonte di luce, quindi si domandò come avesse fatto il suo maestro a portare concretamente a termine quel prodigio artistico.
Ripose il pitale per terra e alzò le braccia di Antoni rivoltandogli, poi, i palmi delle mani, neri come la pece, con le impronte delle dita che assumevano ciascuna una tonalità. Dieci dita, dieci colori.
Quindi si fece prono su di lui e gli osservò le labbra, le pizzicò, le aprì e vide il resto del macero di fiori fra i suoi denti. Mistura che si trae dalla natura, che in organo umano si lavora e trasforma. E che ritorna al mondo, in forma di colore.
Alla vicinanza della lampada i primi petali squadrati, disposti a mosaico cominciarono a staccarsi per il calore. Esteban stette in silenzio, attonito, ad osservarne l’inevitabile degradarsi.
Era quella, si disse che le parole gli vennero chissà da dove, arte che è vera ascesa. Che si disgrega e diventa nulla solo nel momento in cui è vista. Da occhio impuro.