sabato 11 aprile 2009

L'occasione della forma 18^ - Tre fili e due giorni


“Tieni. Intanto questi te li metti in saccoccia…” Fece Estrela a Esteban con feroce arguzia, mentre questi usciva dalla stanza di Antoni.
“Così almeno, se in queste sere ti capita ancora di fare il torello, non mi porti qui malattie” Il giovane architetto si era ritrovato in mano i due preservativi color carne e l’aveva guardata talmente male, da farle dubitare un attimo. Di aver esagerato.
“Beh…Non mi ringrazi? Barcellona è piena di sifilide, non lo sai?” Gli aveva poi sorriso con una luce strana negli occhi
“Ma vattene!” Reagì Labruna ripercorrendo il corridoio verso la cucina. Lei gli era andata dietro.
“Hai pensato a cosa dirmi?” Si erano seduti uno fronte all’altro. Sulla tavola ancora i resti della cena.
“Non ho pensato Estrela. Non ho altri pensieri che quello del mio padrone”
“Tuo nonno? Tuo nonno sta bene. Siamo io e te che andiamo a stare male. Molto male, se non mi spieghi” I capelli neri della ragazza portoghese, raccolti sul nuca davano un brivido a Esteban. Anche in quel momento.
“Ti darei uno schiaffo” Esteban serrò i denti
“Ti manca il coraggio per picchiare una donna. Non è cosa da tutti Amancito…Ma non perdere tempo. Parla”.
Il giovane si versò un bicchiere d’acqua e se lo bevve avidamente, un rivolo gli scese ai lati della bocca. Il fumo rancido del “Forat Vermell”, la fuga, lo sconcerto nella stanza di Antoni gli avevano messo una sete incomprensibile. Non di cerveza, di acqua. Pura e semplice. Bevve una seconda volta. Ma solo per guadagnare tempo.
Estrela, gambe aperte sulla sedia, braccia lunghe in posa lasciva, si accese una sigaretta e sbuffò nella cucina, poi protese il suo collo lungo e lo guardò teatralmente di sottecchi.
“Quindi?” Proruppe dopo alcuni secondi di silenzio.
“Quindi mio nonno, come lo chiami tu, è Antoni Gaudì” A Esteban tornò sete.
Estrela rise caricaturalmente, mente si portava di nuovo la sigaretta alle labbra e la risata si spegneva in convulsi singhiozzi ilari.
“Se la cosa ti fa ridere Estrelita… Magari non sai nemmeno chi è”
“Già, io sono solo una dell’Algarve che scopa bene e mette le corna al marito” Sorrise ancora, prima di continuare: “Sveglia torello, tutta la città sa chi è quell’uomo…Io anche, ma solo pensavo fosse un pochino più SVEGLIO”
E ricominciò a ridere della sua risata sopra le righe, calcando la voce su quello “sveglio” e illuminandosi di un’espressione graffiante e sensuale.
“Stronza”
“Continua Amancito”
“Lui non sta bene. Per ora non è in grado di continuare il lavoro al cantiere…”
“Beh, fallo curare” Aggiunse, allargando le braccia, prima di spegnere la sigaretta nel piatto.
“Non è così facile…Don Gaudì non è una persona comune” Sospirò.
“Sì, vedendo quello schifo che sta portando su”
“Non capisci niente di queste cose”
“Capisco che tutto quello costa un sacco di soldi, Amancito. Troppi soldi. Le cose troppo grandi e troppo costose nascondo sempre qualcosa di brutto…Questo so. E ricordati che sei in casa mia”
“Me lo ricordo Estrelita, stai tranquilla”
“Continua”
“Proprio perché il cantiere costa e il mio padrone ne è il responsabile, non si poteva permettere di diventare quello che è diventato…Proprio non se lo poteva permettere” Esteban deviò il suo sguardo alle spalle della ragazza.
“Vedi – lo interruppe Estrela, riacquistando una posa più aggraziata sulla sedia – è quello che ti dicevo. Cosa può impedire a un vecchio di potersi ritirare o magari di fermarsi per delle cure? Cosa glielo impedisce? Il dover mettere insieme quattro sassi?”
“Tu stai bestemmiando”
“TU bestemmi, idiota…Bestemmiano i preti che costruiscono cose orrende per Dio e se lo dimenticano subito, appena infilano le prime pietre. Bestemmia anche tuo nonno”
“Ragioni come una pescivendola” Il tono di Esteban si fece aggressivo.
Estrela per rabbia prese una tazza dalla tavola e la scaraventò per terra in un gesto stranamente isterico. Perse la sua ironia in un attimo solo.
“Pescivendola sì, quella sono io, ma tu cosa sei?…Sei attaccato alla mutanda del tuo padrone come una piattola. Che cosa ha fatto lui per te di così importante?..Dimmi torello, cosa ha fatto? Ti ha fatto ricco? Ti ha aperto le porte di qualche bordello? Beh, quello potevi farlo anche da solo…So di certe signorine che con i bellimbusti come te applicano tariffe dimezzate…”
Esteban con un gesto veloce cercò di scavalcare il tavolo per raggiungere Estrela. Quella donna di una bellezza bucolica, dagli occhi verdi come pelle di ramarro, dal linguaggio e dalle metafore che si erano fatte di taverna, scansò il placcaggio e ricominciò a ridere di gusto, quando il suo “Amancito” rovinò a terra, trascinandosi dietro piatti, bottiglie e posate.
Lei gli poggiò un piede sulla spalla come a tenerlo giù, lui arrancò ferito nell’orgoglio, più che nel corpo.
“Guardati – gli disse rallentando il battito del riso – non sei nemmeno capace di afferrare una donna e vuoi salvare un vecchio. Che stronzo” Poi gli porse la mano e lo aiutò ad alzarsi.
Lui si rimise a sedere esattamente dov’era, cercando goffamente di pulirsi i pantaloni. Quindi, una volta comodo…“Don Gaudì è un simbolo. Il suo genio lo è…Tu..Tu non sai neanche che cuore batte nella città in cui vivi..”
“Non m’importa della città in cui vivo. Una città vale un’altra. Non sono mai rimasta nella stessa per più di tre anni. Barcellona è uguale a Oporto, a Bilbao, a Marsiglia… Lo è la gente – il suo tono si era fatto più dimesso, quasi meditabondo – Che è gente strana. Per loro dopo un minuto non sei più un estraneo, ma dopo anni resti sempre l’ultima arrivata…Poi sono tutti bravi a cercare Dio fuori, nelle chiese, nei libri e fingono e sono falsi. Come te”
“E per questo che ti concedi al primo che passa” Replicò, tagliente, il giovane architetto.
“Mi concedo eh… Tu non sai niente Amancito, tu NON SEI niente. Sei solo un arrogante figlio di papà che non sa cosa fare della sua vita. Pensi di essere al centro del mondo solo perché il “Forat Vermell” ti spalanca le porte. Credi di essere qualcuno perché sei giovane e bello e ricco…”
“Io non sono ricco, almeno non più”
“Non importa, ti comporti come tale….” Sorrise la donna.
“Beh, non mi sembra che tu te la passi male, primo. Secondo: dove stavo io, ci venivi pure tu. Ti ho conosciuta là. O non te lo ricordi Estrelita?”
“.. E sei pure bravo con le parole. Ma sei venuto da me. A chiedere aiuto”
“E’ l’unico posto che mi è venuto in mente. Non so perché”
“Non mi frega perché. Ora ci sei e mi toccherà aiutarti” Lo guardò con aria di sdegno.
“Non sei obbligata”
“No, certo che no. Idiota - si fece seria - .E’ proprio perché non lo sono che non ti caccio. A te e al vecchio… A ben vedere dovrei chiamare i carabineros, così tuo nonno la smetterebbe di lavorare a quell’orrore”.
“I carabineros non sono un problema” Aggiunse Esteban pensieroso.
“Ah no? E a chi avete pestato i piedi tu e lui? A qualche militare?” Rise brevemente
“No, alla curia…Loro non amano quello che Antoni Gaudì è diventato per la gente di Barcellona”
“Sei proprio uno stupido Amancito. Ti sei messo contro i peggiori”
“Io non mi sono messo contro nessuno”
“I preti…Una ragione in più perché ti dia una mano torello. Ma devi stare alle mie regole, questa è la casa di mio marito. Lui non tornerà prima di un mese e per allora, spero, avremo risolto questo problema”.
“Grazie Estrela” Le sussurrò Esteban dall’altro capo della tavola
“Saprai sdebitarti. Ne sono sicura” Accennò lei pensierosa, mente si chinava a raccogliere posate e cocci. “Nel frattempo io mi occuperò del tuo padrone e tu seguirai le mie regole. Intanto mi darai una mano qui. Le mie governanti non torneranno prima dell’arrivo di mio marito. Tu mi darai aiuto in casa, quando non sarai al lavoro. Non ho voglia di farti da serva. Tu per me non sei nessuno. Ti è chiaro questo?”
“Sì, mi è chiaro”
“Bene, comincia subito qui. Con questo disastro che hai combinato”. E insieme presero a riordinare lo stanzone della cucina.
Era ormai quasi l’alba, quando i due giovani, spossati, scivolarono fra le lenzuola del talamo, senza rinunciare a un’altra ora d’amore, nella penombra che filtrava dalle persiane, negli sguardi e nello stringersi e fondersi.
“Tu non sai quello che rischi” Le sussurrò Esteban agile e madido.
“Stai zitto” Lo baciò lei, con tutto il sapore della sua vita che fluiva in un soffio simbolico.

“Lui è mio marito solo sulla carta” Le disse Estrela, guardando il soffitto la mattina dopo, come se ragionasse ad alta voce, nel sommesso brusio che arrivava dalla strada, attutito dal salire.
Esteban aveva giudicato, a ragione, che farsi vedere troppo presto al cantiere, avrebbe destato qualche sospetto, quindi aveva indugiato sulla pelle di Estrela e aveva atteso la mattina inoltrata.
“Mi ha preso con sé perché sono giovane e gli piace pensare di trovare un letto caldo quando torna a casa, ma ci torna sempre più raramente e sempre più raramente mi tocca compiacerlo. Credo che le sue amanti non siano presentabili come me…Quindi non corro il rischio di essere cacciata di casa. Almeno per ora”.
“Però accetti questa situazione. Secondo me perché ti piace…Ti fai gli affari tuoi” Esteban si era girato di scatto mentre argomentava, come per darle un bacio. Lei si era ritratta con uno slancio di fastidio.
“Sì, mi faccio gli affari miei”
“Che ti succede adesso? Ti sei offesa?”
“No, pensavo a tuo nonno…Questa mattina esco, vado a comprare delle tempere” Disse pensosa
“Tempere eh…Buona idea. Magari lo aiutano a tornare in sé, dovresti comprare anche delle tele però” Fece Esteban ingenuo.
“No, non pensavo a delle tele, proprio non mi passava per la mente. Io di queste cose –gli occhi di Estrela si erano fatti di profilo più umidi e luccicanti – non capisco nulla. Ma credo che…Credo che deciderà lui cosa farne e come farne qualcosa. Insomma… Lo hai visto no? Cosa ha fatto con quel vaso da notte. Io non ho mai visto una cosa così”
“Ti spaventa?”
“No, non mi inquieta. Forse m’infastidisce. E’ una cosa che non capisco. Ieri, dopo aver visto cosa ha fatto, sono rimasta qualche minuto a osservarlo, lui era lì. Immobile, non ha fatto un cenno per molto tempo. Sembra che sia andato da un’altra parte e che gli sia rimasta solo …Solo quella parte di anima e di sapere che gli ha permesso di fare quello che ha fatto. Per questo voglio comprargli dei colori come si fa con un bambino che ha problemi a parlare. Eppoi non capisco. Non capisco il senso di tutto questo. Tu credi che le cose succedano per caso?”
Per la prima volta Estrela mostrò un viso splendidamente dolce, mentre si voltava verso il suo amante, steso nel letto accanto a lei. Nei suoi lineamenti da dea atlantica, erano scomparse ironia, ferocia, volgarità. Sottile o esplicita che fosse. Per un po’ la giovane donna era tornata ad avere i suoi 24 anni. Ad averne il candore e la sensibilità ingenua di una che è donna da così poco.
Esteban si intenerì subito e prese ad accarezzarla, guardandola.
“Non lo so Estrelita. Non lo so se questo ha un senso. Io vedo un uomo che mi ha insegnato molte cose, parlandomi pochissimo e lo vedo diverso da come l’ho conosciuto. Mi sembra indifeso, anche se so che il suo genio c’è ancora. Da qualche parte…Così sento di dover proteggere due cose insieme. La persona che vuol dire molto per me e il simbolo della sua arte – sorrise – E’ come avere un doppio scopo, legato a una persona sola.
Capisci ora perché per tutto questo ne vale la pena..Vale la pena rischiare, vale la pena cambiare la propria vita. No, io non so se abbia un senso per me… So solo che questa è la mia strada, anche se proprio non so dove mi porta” Sospirò sincero.
“Intanto ti ha portato nel mio letto, Amancito e non mi sembra tu ci stia male”. Quella luce dissacrante si era riaccesa, la “poesia” era finita. Anche per il giovane architetto senza talento.
“Mi fai un favore Estrela? Smettila di chiamarmi Amancito”
“Io ti chiamo come cazzo mi pare. Sei in casa mia”.

Verso le 11 Esteban Labruna sgattaiolò fuori dalla casa di Estrela, cogliendo l’attimo di deserto per la strada, passò dal suo appartamento per cambiarsi d’abito e tornò al cantiere. Sul percorso s’inventò un paio di movimenti bruschi per riuscire a scorgere qualcuno che lo seguisse, non si accorse di nessuno. Per quanto era certo che qualcuno gli era dietro. Inevitabilmente.
Estrela, invece, fece come aveva detto. Uscì poco dopo Esteban, indossando un elegante vestito bordeaux, con scarpe nere dal tacco “a rocchetto” e calzò il suo sorriso più accattivante. Fece una piccola spesa alimentare, quindi si infilò in un emporio, dove acquistò 24 colori a tempera con relativi pennelli, rinchiusi in una cassetta di legno. Sorrise al negoziante che non poté fare a meno di notare la sua straripante bellezza portoghese e quindi tornò a casa. Serena e decisa, come se fosse una missione militare, o peggio: da spia. Tutto questo la eccitava, la distraeva dai suoi pensieri, le faceva sembrare più tenue e controllabile un’attesa che non era di suo marito e nemmeno dell’ennesimo amante. Era un’attesa e basta, da “uccidere” possibilmente. Come si fa con certe anatre inquiete che starnazzano fino all’ultimo, senza sapere cosa gli sta succedendo, nel mirino del cacciatore.
Sulla via del ritorno, mentre il suo passo prosperoso attirava l’attenzione dei passanti, sfiorò la vetrina dell’ennesimo negozio, in quella via affollata di Barcellona.
Un negozio particolare. Estrela Balaìdos entrò energica e poi ne uscì con altri tre pacchi tenuti insieme da un cordicella tesa. Ondeggiò poi coi suoi fianchi rotondi, lisciati dalla veste di seta, fino a casa.
Fece volare scarpe, cappellino e si mise comoda nella sua vestaglia da camera, entrò quindi, senza bussare, nella stanza di Antoni Gaudì e lo trovò vestito, seduto sul letto, nella solita posa di assenza. Si era azzardata a lasciarlo solo, perché aveva capito ormai, che solo poche cose potevano scuotere quel simulacro di genio diventato vegetale. Una di queste potevano esser i fiori, i cuoi petali del giorno prima, Estrela provvide a scopare via in un attimo, mentre apriva le persiane e faceva entrare un po’ di luce nella stanza del vecchio. Lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò in bagno, giudicando il pitale, o quello che era ora, vuoto. Sentì l’anziano che si liberava e lo sentì lavarsi, con gesti meccanici e precisi. Dopo un po’ aprì la porta e lo riaccompagnò nella sua stanza. Lì, sul letto aveva spalancato la cassetta con le tempere e aveva lasciato i tre pacchetti scartati
Antoni si risedette sul letto e la ragazza uscì, senza voltarsi.

Al cantiere Esteban trovò agitazione. I suoi colleghi, giovani e meno giovani, vagavano fra l’ufficio che era stato di Don Gaudì e il cuore della costruzione, lucidi e carte in mano, a litigare e cercare di spronare i manovali, i muratori, i capomastri che, disorientati, inquieti, eseguivano i lavori sulla base delle ultime indicazioni dell’architetto di Dio. Era, quello che comunemente si può definire, come un vero e proprio vuoto di potere. “E’ come un esercito con tanti ufficialetti di vario grado, ma senza un vero generale, caduto magari al primo colpo di spingarda” si disse prosaico Labruna. Era peggio, invece, molto peggio: a un generale se ne sostituisce un altro, a un genio ispirato da Dio, non si può sostituire che la sua icona. E’ l’icona di Antoni era lì, ben visibile. Sui visi dei lavoratori più umili, fra gli ingranaggi delle imponenti gru, nell’agitarsi convulso degli architetti, nei litigi fra gli ingegneri. In tutto quell’incedere convulso e sopra la righe, come i toni delle voci che si alzavano, sottintendendo una sola cosa: paura.
Paura di non sapere come andare avanti, paura che quel “mostro” che sorgeva lento non avrebbe avuto futuro, non sarebbe diventato cattedrale, tempio di dio. Paura, anche, di perdere il lavoro, certezza infine di aver smarrito una guida. La guida morale di una città intera, la silenziosa e ombrosa madre del pensiero e del naturalistico disegnare. Che da Dio, questa era la certezza dei catalani, traeva linee e curve e forme e che per dio le ricomponeva, ritratteggiandole secondo il suo infinito talento.
A questo “generale”, la Catalogna, il mondo intero, non poteva sostituire alcuno che non fosse di edulcorata sembianza riferibile al suo padre spirituale. Un “padre”, una “madre” che era scomparsa.

Esteban, superò il dubbio e lo sconcerto e finì, pratico, per giudicare positivo per lui tutto questo disordine, pensò che in quel modo sarebbe stato più facile nascondersi, simulare, occultare.
Sapeva però che un’ora sarebbe scoccata e che sarebbe arrivato il momento di rendere conto.
E infatti quel momento arrivò nel tardo pomeriggio di quel giorno.
“Architetto Esteban Labruna?” L’omino sorridente con le lunette al naso, lo aveva guardato.
“Sua eminenza vuole vederla…In anticipo rispetto ai tempi”
“D’accordo” Fece Esteban, con la rassegnazione interiore di chi ha previsto tutto.
“Facciamo fra due giorni alla curia, lei sa dove”
“Sì, io so dove. Grazie”.

Ritornando dal cantiere verso casa sua quella sera, Esteban non si voltò più, non simulò più alcun imprevisto nel suo incedere per spiare e svelarsi pedinamenti. S’infilò le mani in tasca e con il suo mozzo in bocca, cercò di fare pensieri semplici, gli stessi che uno fa quando le cose diventano davvero complicate. “Due giorni. Due giorni perché?” Si chiese per prima cosa “Per mandarmi un messaggio” Si rispose elementare. “Quale messaggio?” Si incalzò “Trovami Antoni Gaudì che era stato affidato a te o altrimenti scopri che fine ha fatto” Si spiegò, mentre gli sembrava parlasse il viso ossuto dell’eminenza. “Altrimenti?” Si rilanciò doloroso “Altrimenti Labruna, lei paga di persona. E non solo i conti sulla carta”.
Andò avanti lucido a ragionare, fino al suo portone. Si disse che, per quanto bravo fosse stato, aveva lasciato dietro di sé una scia di supposizioni e quasi certezze che non potevano essere sfuggite al “grande occhio” della curia. Era quindi inevitabile che tutto riconducesse a lui.
Esteban sapeva, da catalano, quanto il potere della sua chiesa potesse sulla gente. Sapeva bene che quello, una persona avveduta, non avrebbe mai rischiato di misurarlo sulla propria pelle.
Tornò superficiale e si disse che gli sarebbe andata bene. Fu l’ultimo pensiero semplice mentre si distendeva sul proprio letto, in quell’olezzo di chiuso e stantio che pervadeva il suo appartamento. L’ultimo pensiero semplice di quella sera. Il pensiero più conveniente.

Qualche ora più tardi, nel cuor della notte, dopo essere uscito di casa e aver vagato senza meta per essere sicuro di non avere nessuno dietro, Esteban tornò a casa di Estrela. Entrò a testa bassa, per non farle capire la sua inquietudine, la trovò nella stessa, identica, posa della sera prima. Cambiava solo la vestaglia.
“Tuo nonno ne ha combinata un’altra” Gli disse la giovane donna seria.
“Cosa ha fatto?” Rispose distratto, sforzandosi di non incrociare i suoi occhi
“Inutile che ti spieghi, vieni a vederlo Amancito…Ti dico solo che oggi ho fatto come ti ho detto, ma oltre alle tempere ho acquistato anche tre cose, mi piaceva l’idea che potessero servirgli da tela” Rise: “Io non sono abituata ad avere degli artisti in casa…Uomini sì, ma artisti no…”
Estrela aprì la porta della stanza di Antoni.

Don Gaudì era seduto sul letto, immobile, al suo fianco la cassetta delle tempere aperta, esattamente come l’aveva lasciata Estrela ore prima. Non un colore era stato usato, non un pennello utilizzato.
Davanti a lui, per terra, c’erano tre pacchetti di cartone aperti con del pagliericcio che ne sporgeva.
Labruna si avvicinò più sconcertato che curioso e trasse da uno di questi una sfera di vetro.
Giudicò fosse vetro, per quanto ovvia fosse la natura dell’oggetto.
Inizialmente era stata una lampadina, perfettamente sferica. Una lampadina di quelle grandi, del diametro di una decina di centimetri. Uno di quei generi di lusso tanto in voga nelle case all’avanguardia di Parigi e che ora stavano sbarcando anche nella ricettiva Barcellona.
“Ho pensato che sarebbe stato bello, se ci avesse dipinto qualcosa sopra” Disse Estrela, candida come una bambina “Ho pensato che sarebbe stata più carina…Da ornare, intendo. Ne ho prese tre”.
Esteban osservò quello che Don Gaudì ne aveva fatto, con gli stessi movimenti lenti che ne tradivano lo sconcerto.
Uno splendido ornamento in rilievo per ciascuna di esse, come un lungo disegno circolare che si basava sul principio di tre colori: un nero setoso e sottile, un grigio spesso e lanoso, un bianco cotonato. Le sagome in rilievo che parlavano di figure ascetiche stilizzate, di masse come in preghiera, di santi con l’aureola, di chiese esplose in altezza, era ricavato molto semplicemente eppure in modo talmente incomprensibile che Esteban dovette avvicinare una delle tre lampadine al naso, come per meglio metterla a fuoco. Poi si sedette un’altra volta, sotto gli occhi di Estrela, al fianco del suo maestro assente, si avvicinò alla luce e, come in un gesto diventato abituale, sfruttò la vicinanza dell’intesa luce della lampada sul comodino. Osservò, scrutò, studio con tutta la sua silenziosa concentrazione.
“Ma questi sono fili di tessuti…”. Realizzò ad alta voce, come a cercare conferma dalla sua procace amante. “E da dove vengono?” Aggiunse poi.
Estrela rise, Labruna appoggiò la palla con l’attacco sul letto, quindi si rivolse verso Gaudì, gli aprì la giacca delicatamente, e vide.
Vide la fodera di seta nera sfilacciata all’altezza del taschino interno in basso, vide il grigio del tessuto della giacca che risultava quasi meccanicamente sfilato nella parte del risvolto sul petto. Poi pensò al bianco e andò con gli occhi alla camicia che sporgeva, se ne accorse solo allora, fuori dal pantalone e che, manco a dirlo, era stata ordinatamente fatta a frange.
Capì infine, riosservando una delle sfere a caso: “Estrela, non ci posso credere. Ha fatto tutto utilizzando un solo filo di ciascun colore, per ogni lampadina…”
La ragazza, che si godeva la scena con l’incoscienza e la sicurezza delle persone intelligenti ma ignoranti, trattenendo a stento la risata, fece fatica rispondere.
“Beh, è stato bravo” Poi non ce la fece più e uscì ridendo. Ma avrebbe potuto farlo piangendo e sarebbe stata la stessa cosa. Per Esteban e per lei.
Fattosi di nuovo sotto a Don Gaudì, il giovane pizzicò di nuovo le labbra, aprendole come la sera prima e vide. Vide resti di pagliericcio masticato fra le gengive e capì cosa aveva utilizzato come colla per quell’ornamento incredibile.
Poi guardò il pitale che aveva ormai perso buona parte dei colori e del figurare della sera prima e che era tornato alla sua ben poco nobile funzione originaria. Ancora una volta la base di quel collante era stata l’urina mischiata alla saliva. Solo che, questa volta, l’anziano architetto aveva provveduto masticando, a mischiargli il prodotto di quel personalissimo bolo. E la colla teneva. Molto meglio della sera prima, vicino a quella luce intensa che proveniva dal comodino. I fili non cedevano, rimanevano lì a formare quel bizzarro e bellissimo ornamento che, ad una seconda osservazione, richiamava in parte le figure in basso rilievo del cantiere.
Su una lampadina Antoni Gaudì aveva stampato quello che parve il riassunto della nascita del Messia, su un’altra gli sembrò di riconoscere i momenti della Passione di Gesù, su un’ultima infine il momento in cui, all’ “Ecce Homo!” di Pilato, la folla aveva fatto seguire l’abominevole condanna del Cristo.
Secondo un gioco di linee ininterrotte e ripetitive, i tre colori si alternavano a formare, in rilievo, la terra e gli edifici, gli esseri animati, il cielo a nuvole. Era un altro prodigio, partorito dalla mente dissennata di un genio che aveva perso la ragione del presente, la coscienza di sé e del suo vivere, ma che chiedeva, dibattendosi in chissà quale anfratto della sua mente, di poter esprimere il suo talento. Non importa con quali strumenti.
Quello che Esteban non capiva, anche sforzandosi era “Perché?”. Perché usare quegli strumenti? Petali di fiori e pollini, prima; fili di tessuti ora. Con delle tempere a disposizione.
In tutto quel “non capire”, Labruna, ebbe come uno scatto d’ira inesprimibile e implosa. Ripose le lampadine nei rispettivi involucri di cartone e rimase pensieroso, rassegnandosi infine a restare con molte domande inappagate.
Il “principe del Forat Vermell” si compatì per la prima volta in vita sua, pentendosi al contempo di non aver coltivato la propria anima, negli anni, come la propria carne. Fu un pensiero di inadeguatezza che si fece pungente, fino a quando, uscito dalla stanza dopo un’altra ora di sconcerto e meditazione, gli occhi non si posero di nuovo sull’incarnato della sua splendida amante.

Lei lo aspettava, come si attendono tutti gli “Amancito” di questo mondo. Con un sorriso di ironica difesa, il cuore che le batteva di pulsare opposto e la plastica rigidità di chi attende solo di potersi sciogliere e abbandonare.