lunedì 16 marzo 2009

L'occasione della forma 12^ - Tre dita


Howard ogni mattina, fosse a New York o a Providence si spazzolava accuratamente le unghie delle mani, dopo averle insaponate. Poi con soddisfazione, asciugatele dopo il risciacquo, se le ammirava. Ne troppo lunghe ne troppo corte ma bianchissime. Era una sensazione che lo faceva stare bene ma che durava così poco. Già a metà mattina doveva ricorrere ad altre cure. Non sopportava la leggera striscia di nero che vi si formava in continuazione e che sapeva di lavoro manuale, di sporcizia invadente nei luoghi da lui frequentati. E provava stizzoso fastidio, fino a quando non erano tornate come prima. Così per lunghi periodi dell’anno aveva preso a girare in guanti, che si curava di sterilizzare e pulire soprattutto all’interno, rivoltandoli.
Più volte con Sonia, questa sua mania era stata fonte di litigio. Una prima volta appena sposati quando, realizzata questa fissazione del marito, la donna ucraina ci aveva scherzato su:
“Howard che ci vuoi fare? E’ come per gli abiti: c’è chi indossa il gessato dalla mattina e a sera sembra ancora un modello, c’è chi dopo un quarto d’ora che lo ha addosso, l’ha già ridotto uno straccio… Rassegnati a non avere sempre le unghie bianchissime e falla finita”.
In virtù di tante queste piccole “invadenze”e di altre inadeguatezze matrimoniali ben più gravi, Howard non era riuscito a superare il passo dei primi mesi di convivenza a Brooklyn e aveva preso a schivare le occasioni di ritrovo con la moglie. Sempre più assente nelle lunghissime sere invernali, scippato via dal “Circolo dei giornalisti dilettanti”, sempre più assente durante la bella stagione, quando la sua Providence lo chiamava. Quello era diventato, alla fine, un “non matrimonio”. Dove l’unica a mostrare una certa dignità nelle apparenze era rimasta Sonia, “presa” dai suoi cappelli, dalla cura della casa, dalle speranze di moglie, ma mai da suo marito.

Quando Lovecraft ripartì da Providence per tornare a New York, constatò che questa volta non gli sarebbe nemmeno toccato dare spiegazioni a Sonia. Anzi, non doveva neppure passare a farle il convenevole saluto di marito “fuori per lavoro”. Lei si era trasferita a Cleveland dopo il fallimento della sua piccola azienda di cappelli e gli aveva lasciato spazio per agire a New York, senza rendere conto. A nessuno.
Così era tornato da Paco de Los Rios e aveva avuto il tempo anche di piacevoli scoperte.
Aveva brama di vedere l’esule messicano. Voglia di sottoporgli il suo lavoro. Che fosse tradotto presto e bene. C’era poi la lettera da inviare ad Antoni Gaudì. Sperava che la traduzione fosse resa pronta per il giorno dopo. Trattandosi solo di poche righe.
Paco gli aveva offerto un caffè e mentre, con una curiosa caffettiera, attendeva il ribollirne sulla fiamma, aveva preso in mano il plico di fogli con il racconto di Howard. L’aveva scorso brevemente, leggendo qualche passo a caso, appoggiato alla cucina di ceramica.
Aveva detto, quindi, il suo prezzo e Lovecraft aveva sorriso.
Paco, realizzò Lovecraft, era un personaggio curioso. Aveva occhi intelligenti e ironici, un corpo asciutto e slanciato pur non essendo alto. Capelli ondeggianti e brizzolati, ma d’un nero corvino.
Muoveva le mani con gesti veloci di antica raffinatezza.
Aveva caricato la caffettiera, sopra la fiamma accesa. Lo aveva fatto con movimento di impronta destrorsa e ritmica, usando l’opponibilità di pollice e indice. Le uniche due dita che gli erano rimaste nella destra. La sua mano, nell’operazione era rimasta per alcuni secondi nel raggio della fiamma, ma non si era scottato. Aveva reso un’assenza il suo vantaggio. Una menomazione il suo più grande pregio. Almeno nell’operazione di farsi un caffè denso e nerissimo.
Poi la caffetteria annerita aveva sobbalzato e avevano bevuto insieme. Come due vecchi amici.

“Io non sono un poeta, mister Lovecraft –aveva detto a un certo punto il messicano- ma capisco che quello che le mi fa tradurre non è poesia. E’ qualcosa di più. O di meno, dipende dall’animo che si ha. Tanta gente viene da me a domandare servizi di questo tipo. Per lo più uomini sposati che chiedono di tenersi in contatto con le loro amanti in sudamerica. Poi ci sono le lettere d’affari e quelle fra parenti. Il mercato tiene bene, per chi ha una bella calligrafia. Ma cose come le sue no. Non le ho mai tradotte…”
“Le piacciono?” Aveva ribattuto Howard sereno.
“Non so ancora” Si era lisciato il pizzetto brizzolato.
“Ma c’è una cosa che mi piacerebbe sapere, Mister Lovecraft…”
“Sì”
“Come fa? Come si fa a immaginare queste cose e a non averne paura?” Gli occhi di De Los Rios si erano fatti sottili, quasi serentori.
“Yo creo que…Credo che si fa fatica, poi a tornare nella realtà. Una esposa antipatica, un niño
odioso, el trabajo…Il capoufficio. Come si fa a…
“A non scollarsi dalla realtà?”
“Esatto”
Howard Lovecraft aveva guardato il suo traduttore e, in un istante, aveva deciso che voleva fidarsi, spendere qualche parola per spiegarli. Nella sua logica sagace, aveva giudicato e deciso, ma solo in quel momento e di fronte a quella domanda impertinente, che se quel messicano menomato doveva essere il suo traduttore, era giusto che cominciasse a capire. Quantomeno a grandi linee. Così sorseggiò dalla tazza fumosa, si fece ironicamente serio, e parlò. Senza la pretesa di essere capito al volo.
“Paco lei è stato all’Esposizione Francese? Quella di due anni fa, qui a New York?
Io sì – Howard sorrise-. Nel padiglione delle nuove tecnologie c’era la casa del futuro. In ogni stanza almeno una bocca per la corrente, in altre addirittura due... Ci hanno fatto vedere come vivremo fra qualche anno, forse venti. Quasi tutte le case saranno dotate di quelle bocche. E ci saranno bocche per le radio e per macchine che lavano i piatti e per macchine che lavano i panni. Per mantenere i cibi freddi. Funzionerà tutto a elettricità, grazie alle bocche, alle prese di corrente alle quali saranno collegate…”
Paco De Los Rios lo guardava stranito, non tanto per quello che diceva, quanto per il modo. Howard aveva una luce, una fiamma negli occhi che ti trasportava sulla cresta delle sue parole. Lasciando una scia. Come una lunga via di indizi per seguirne il percorso e arrivare. Dove lui era già.
“…Io – spiegò Howard – mi pensò come un uomo collegato a queste bocche con tanti cavi elettrici. Le mie passioni, la mia realtà, i miei desideri sono collegati a queste rose. Solo che al posto di portare corrente, questi cavi portano vita. Lei mi capisce Paco?”
“Sinceramente no” Fece il traduttore sorseggiando il suo caffè. Per nulla vergognoso. Allo scrittore questa sfacciataggine piacque.
“Ognuno di noi prova emozioni – riattaccò Howard – chi con più forza, chi con minore intensità. Ma queste, corpose o esili che siano, sono alimentate dai nostri pensieri, dai nostri sensi soprattutto”.
De Los Rios lo seguiva attento. Scettico.
“Io scollego le emozioni dai miei sensi, dai miei pensieri. Stacco le loro spine da quelle prese di corrente. Non sento più nulla. Non ho bisogni, non ho paure, non ho rimorsi che i miei sensi possano alimentare. Restano solo le emozioni. Emozioni allo stato puro che mi escono da dentro. Dalla mia immaginazione.
Io non lo so perché, ma è così.
Non so nemmeno se così si diventa, ma se è alla realtà delle mie passioni che io sento di dover rinunciare. Io ci rinuncio e vado avanti… Vado avanti, perché è la mia idea, la mia emozione, che deve sopravvivere, non importa di cosa debba privarmi”
“Estas loco, sabes?”
“Prego?”
“Nada…Niente. Ma questa è una vita di rinunce, mister Lovecraft. Di non appagamento perenne. Per cosa?”
“Per la libertà interiore. Chi non sente, non ha bisogni. Chi sa rinunciare, non ha paura. La paura non lo condiziona.
Se io avessi paura di quello che scrivo, o ci credessi perché i miei sensi sono collegati alle mie emozioni, non potrei scrivere”
“Ma che vita è? Mister Lovecraft...Una vita di paura della paura”
Ci fu un attimo di silenzio, poi Howard tornò a guardare Paco.
“Le mancano?” Fece con un piccolo cenno del capo, indicando la destra del traduttore protesa sul tavolo vicino alle tazzine. Pensò che quella mano aperta e monca, nella “L” che formava con pollice e indice, e nella curva innaturale delle dita mancanti, fosse simile alla punta di un’alabarda.
“No, Le mie dita non mi mancano. Solo quando cambia il tempo. Pizzicano”.
“Ho visto come mi ha preparato il caffè – disse Howard serio -… Se le avesse avute ancora, non avrebbe potuto essere così abile, così veloce. Si sarebbe scottato. E questo che ha fatto, è davvero un ottimo caffè”
Paco De Los Rios esplose in una raffinata risata montante, mentre i suoi occhi luccicarono svegli. Poi raccontò a Howard delle sue tre dita, della sua vita a Guadalajara e di come avesse imparato l’inglese in pochi anni. Da profugo, da prima nella polverosa biblioteca del quartiere, poi sui quotidiani che consegnava a domicilio. Era un uomo d’intelligenza vivida. Un uomo che non sprecava un istante della sua vita.

La traduzione della lettera per Antoni Gaudì sarebbe stata pronta il giorno dopo. Paco non solo gliela regalò come omaggio sulla traduzione del racconto che sarebbe stata pronta per l’inizio di giugno, ma spinse Howard ad accettare la sua ospitalità per la notte.
“Puedes dormir aquì… Può dormire qui, mister Lovecraft. Questa stanza rimane chiusa sempre. La uso qualche volta, quando vengono a trovarmi dal Messico. C’è sempre qualcuno che ha bisogno di ospitalità”
“Parenti? Una Moglie?”
“Non sono sposato e i miei parenti chissà dove sono. No, sono amici o amici degli amici… Nel mio paese non è facile vivere, ancora oggi. Così ogni tanto bussa qualcuno alla mia porta. Io apro sempre. Non sai mai cosa ti riserva il futuro mister Lovecraft, per quanto tu possa essere bravo o fortunato. Ma così mi va di fare. Io non lascio mai fuori nessuno, non vorrei mai l’avessero fatto con me”.

Cenarono con “mole negro” e vino rosso che Paco si fece portare dalla taverna sotto casa, poi bevvero tequila e discussero di Zapata e di Villa, della politica estera di Calvin Coolidge e dell’embargo al Messico. L’ex contabile snocciolò da una cassetta di legno, tre o quattro cigarillos e se li fumò, dopo averli offerti senza successo allo scrittore. Infine, verso le dieci, De Los Rios accompagnò Howard alla sua camera.
“Spero che i rumori non la disturbino. La mia casa è un porto di mare –aggiunse sorridente il messicano – viene gente a tutte le ore…”
Quella notte Lovecraft faticò ad addormentarsi, lasciate le finestre aperte. Ascoltò il vociare che proveniva dalla strada sottostante, lo schiamazzare dei giovani e poi, proprio mentre i suoi occhi si stavano chiudendo, senti la porta dell’entrata che si apriva cigolando. Qualche ticchettio nel corridoio e qualche ridere sommesso. Quell’inequivocabile passeggio di donna su tacchi, lo rasserenò prima e poi lo incuriosì. Protese l’orecchio e attese. Di sentire l’inevitabile e bellissimo rumore dei primi baci passionali e il latino sussurrare del suo ospite.
Si disse che era quello il momento di addormentarsi, ma non fece in tempo. Gli vennero in mente i lineamenti sobri e volitivi della sua Sonia. La pensò sola a Cleveland, tornata commessa, la giudicò arrabbiata con lui, sentì come una stretta al collo dello stomaco, ma non si chiese che cos’era. Usò le sue forme per distrarsi, la sua immaginazione di scrittore onirico, ritornando al tentacolare Cthuluh, all’eccheggiare del suo Soggoth, ai loro miasmi orrendi, alle loro case partorite dalle immensità cavernose del sottosuolo, alle schiere di discepoli umani di immonda crudeltà.
Tornò il pensiero a Sonia.
Fu un pensiero che si spense in quel vento leggero di aprile. Un vento che ti parla della prossima estate, ma che non ti fa dimenticare l’inverno, mentre tu chiudi gli occhi perché sei stanco.