martedì 12 maggio 2009

L'occasione della forma 20^ - Solo un equivoco


Quella mattina Howard uscì tardi, recuperando a fatica un aspetto normale, dopo essersi bagnato gli occhi più volte nel vano tentativo di cancellare quel rossore intorno all’iride, di togliere le tracce di quel pianto sotto il lavabo. Si vestì sportivo, senza più badare alle sue unghie. Si prese una vacanza da tutti i suoi impegni, dal “circolo”, dalla scrittura, dalla propria presenza in quella casa che gli stava così a cuore, dalle sue zie, Lilian e Annie. Che lo amavano così tanto da risultare irrispettose nei suoi riguardi. Invadenti perfino. Ma a Lovecraft, infilata la porta verso mezzogiorno, di quell’invadenza importava davvero poco e non fu per sottrarsi agli sguardi apprensivi che decise di passare fuori il pomeriggio, fu perché, una volta imboccato un percorso, per quanto doloroso o rovinoso fosse, sentiva di dover continuare, di dover procedere e chiudere i conti. Di qualsiasi entità questi si fossero rivelati. Così uscì nella sua Providence, ma fu come se fosse tornato in quella piccola città per la prima volta in più di vent’anni, come se ora guardasse il suo paese da un’altra prospettiva. Non più con gli occhi dell’adulto, dello scrittore di nome che non riusciva a monetizzare, con l’occhio distratto e vuoto dell’abitudine, bensì con lo sguardo incantato di chi, ad ogni passo, rivedeva gli anni trascorsi, il trasformarsi delle case che si affacciavano sui vialetti, il crescere delle betulle, il modificarsi dei mezzi e dell’abbigliarsi delle persone. Ogni passo un cambiamento, ogni angolo un motivo per ragionare e stupirsi, di tutto ciò che in vent’anni non aveva notato. Sapeva dove questa passeggiata doveva portarlo.
Verso il mezzodì si sedette quindi sotto una certa pianta, su una collinetta che dominava la corta vallata di Providence, in mezz’ora di passo spedito con i suoi pantaloni alla zuava che lo facevano sembrare ancora più allampanato, aveva superato tutti gli ordini di case e poi, sudato, si era adagiato sotto quella pianta. Che era la stessa del suo amore con la giovane Ripple. Una betulla ormai alta e forte che assicurava un ombra ancor più densa rispetto a 20 anni prima. Era da quel pomeriggio che non si recava in quel posto, quasi lo avesse dimenticato, quasi fosse davvero riuscito a staccare quella spina per così tanto tempo. Invece no, quella spina era rimasta lì, inserita, forte come e più di prima. Solo i ricordi, affastellati uno sopra l’altro, ne avevano celato alla sua anima, tutta la sua forza. Ora che il conto si stava chiudendo, Howard poteva stendersi rassegnato sotto quel legno bianco, quelle foglie generose. Non sentiva dolore, provava solo una sana e vivida commozione. La stessa che si era negato per anni. La stessa che rende gli uomini più fragili sul momento forse, ma più forti nel tempo, perché poggiano il loro vivere quotidiano sul proprio vissuto. Accettato per intero. Senza staccare di spine. Mutilazioni di sentimenti ed emozioni.
Howard Phillips Lovecraft, scrittore di romanzi orrorifici, per una volta decise di essere un uomo, semplicemente, e di dimenticarsi di tutto il resto. Pianse per Charlotte ventidue anni dopo, pianse per sé, pianse per quegli angeli che non erano scesi a poggiare una mano sulla sua amata, su di lui. A salvare la sua futura moglie, a salvare lui dal suo destino arido e bizzarro, seppur creativo oltre ogni limite. Pianse e pianse ancora.
“Già – si ripetè poi amaramente – il mio destino di scrittore di genere…”. Mentre i suoi occhi si facevano sottili come linee incomprensibili sul suo viso arcigno dal mento sporgente, Howard pensò, ora che se lo poteva permettere, di scendere fino alla radice della sua creatività, componendo il suo talento, tassello dopo tassello, come mattoncini di una costruzione per bambini. Chiuse gli occhi al sole di Providence, in attesa che una nuvola passasse quindi, sganciò i suoi pensieri e si abbandonò ancora. Voleva capire se stesso. Fortissimamente voleva.

Un colpo di tosse aveva percosso il suo corpo snello ai limiti dell’emaciato. A 18 anni Howard era talmente magro che le sue zie quasi si vergognavano del suo incedere dondolante. Lilian si affrettava sempre, negli spazi che la madre del ragazzo gli concedeva, a ricoprirlo con abiti imbottiti d’inverno e maglie d’estate. Il giovane Lovecraft non era certo una bellezza, da ragazzino addirittura il suo aspetto fisico così originale, ne aveva causato una certa emarginazione fra i coetanei. “Ostracismo” che Howy aveva superato bene, un po’ per l’abbraccio sin troppo affettuoso e avvolgente dei suoi familiari, un po’ per certa tendenza a vivere tutto ciò che lo riguardava con un radicale distacco. Forse la stessa naturale predisposizione che avrebbe fornito la base per quella successiva freddezza.
Tuttavia il giovane Lovecraft aveva qualcosa nel suo porgersi, qualcosa che lo rendeva davvero speciale. Nei modi garbati, ma non solo. Nel suo estraniarsi durante le conversazioni che lo portavano a perdersi nel vuoto con lo sguardo e lo facevano sembrare davvero dotato della possibilità di passare nel suo universo parallelo ad uno schiocco di dita. Le sue zie non erano mai tenere nei commenti serali. Forse solo Lilian lo considerava speciale nel modo giusto, le altre donne, compresa la madre, semplici e timorate di dio, disperavano di farne un impiegato modello, piuttosto che un professionista quantomeno di discreta fama. Tutte, comunque, erano concentrate su di lui. Come api operaie attorno alla regina.
Dopo la tosse fu la volta del vomito che agitò Howard per una notte intera. Fu una notte dolorosa fisicamente, poche settimane dopo la morte di Charlie Ripple, d’un male carnale che si associava a quel malessere sotterraneo del cuore, ormai sprofondato nella sua anima come un castello che s’inabissa nel mare. Tornato a casa dopo tre giorni di assenza, aveva incrociato gli sguardi di sconcerto delle sue zie e di sua madre che non avevano chiesto. Già sapendo.
Gli accudimenti di queste nei giorni successivi al suo ritorno si erano fatti più assidui, ma stranamente più discreti. Come se il talentuoso Howard fosse diventato uomo anche ai loro occhi che , sapevano nonostante l’aridità del loro vivere da zitelle e vedove, quanto un grande dolore potesse far crescere un ragazzo che diventava adulto d’un colpo.
Poi quella notte i primi colpi di tosse e la successiva il vomito, mentre di giorno, alla luce del sole, il suo viso era appassito subito, venendo ad assumere il colorito olivastro e innaturale di essere altro da sé. Un’ulteriore beffa per quell’aspetto fisico, davvero privo di slanci gradevoli.
Quella notte Howard capì che il male della sua anima doveva attendere ancora, anzi. Avrebbe dovuto essere sopito, cancellato, nascosto il più possibile, dal momento che prove più impegnative per il suo sopravvivere lo attendevano.
Quel bacio, naturalmente appoggiato sulle labbra umide della sua donna, gli stava costando caro. La vita forse.
Sentì dentro di sé che si avvicinava il primo, forse anche l’ultimo crocevia della sua vita, il momento in cui la “destra” e la “sinistra” in quanto scelte di percorso avrebbero esercitato un potere radicale sul suo futuro. “Vivere o morire? Resistere o lasciarsi andare?”.
Rigettando nel pitale affianco al letto, rimaneva lucido, gestendo quel male che montava, fulminante come un lampo su una vita rabbuiata dal dolore sopito, incancrenito nella parte più nascosta del suo sentire. Faccia a faccia, senza nessuno che sapesse, senza alcuno che avesse avuto modo di capire il momento, d’intervenire, d’interferire. Da solo quindi, completamente.
Fu quello il momento in cui la sua vita da sopravvissuto svoltò definitivamente. Il suo staccare la spina fu perentorio per gli anni a venire. Cancellata la sua adolescenza, congelato il percorso di amorosi sguardi all’emporio di mister Buff, nettato il suo ricordo di quel battito d’ali fra le sedute in chiesa e le parole di zia Lilian e l’ombra della betulla sulla collinetta. E il viso e le parole e la voce di Charlotte. E il suo corpo…Fu quello, forse, il segreto del suo sopravvivere al male di Charlie. Come se l’escludere un altro dolore immenso, dell’anima. Il potarlo dei suoi rami maleodoranti e invasivi, gli avesse permesso di trovare la forza per gestire il male fisico, il superare quella notte di dolore, di conati, di stanchezza infinita che ti parla di pace eterna, mentre il tuo tempo non dovrebbe scadere.
Vomitò otto volte in silenzio, con la porta della sua stanza chiusa al mondo, le ultime due inducendo d’istinto i conati con le due dita della destra in bocca, mentre la sua lucidità spaventava se stesso. Lo stesso suo male.
Freddo come ferro nella neve, non perché vivere davvero lo interessasse, ma solo perché l’essere trascinato via dalla stessa malattia del suo amore, gli pareva beffa troppo grande per il suo destino. Fu quello il momento in cui rilesse idealmente quel libro insignificante al fianco dell’ultimo letto di Charlie.
Mentre i muscoli del collo si tendevano a vista, il capo si protendeva verso il vaso da notte e la sua bocca si contorceva in smorfie di espulsione liquida, non aveva che da scegliere, sganciando la sua immaginazione verso infinite vette. Aveva pensato a un libro scritto da un arabo pazzo, un libro che potesse racchiudere in sé, in trame e periodare orrorifici, il segreto della vita, la libertà e la schiavitù dalla morte. Pensò a formule segrete, a riti magici di nefasta e innaturale provenienza, motti che consentissero agli uomini di andare oltre, sfidare i demoni, scendere a patti con l’inferno, e sopravvivere. Non c’era nulla di amorevole in quello, niente che potesse rapportarsi all’amore, eppure tutto da quello nasceva. Dall’assenza di Charlie, dal bisogno di non morire, ora, del suo stesso male, colto improvviso in una notte qualunque, davanti a un pitale nel chiuso della sua stanza di ex adolescente. Fu in quel momento, nell’istante esatto in cui pensò al suo libro dei morti, che la rotta del suo destino, gli piacque pensare oltre vent’anni dopo, fu invertita.
Nessuna “grande mietitrice” avrebbe appoggiato la sua falce sulle sue terga glabre, lui sarebbe sopravvissuto a tutto. Ai due dolori, ai due mali invasivi che gli contorcevano l’anima e le membra. Nella sua stanza di Providence Howard Phillips Lovecraft sopravvisse in qualche modo. Un “modo” che avrebbe capito solo molti anni dopo, sotto un lavabo pochi metri più in là, in fondo al corridoio. Tanto tempo, per un percorso così breve…
Lui si era salvato da solo e lo aveva fatto nella notte, sganciandosi dal buio del suo vissuto, estraniandosi dal dolore lancinante che lo avrebbe spinto verso la giovane Ripple, secondo quello schema romantico che avrebbe voluto “amore raggiungere amore”. Di romantico a Howard non sarebbe rimasto che qualche libro polveroso, incastonato nella sua libreria. Non ebbe paura nemmeno un istante nella notte di Providence con il viso proteso innaturalmente, non lo sfiorò l’ansia di dover scegliere, il timore di non farcela. L’orrore di dover morire. Non perché fosse un coraggioso, solo perché vivere o morire, a quel punto, per lui sarebbero state la stessa identica cosa. Per il suo sentire anestetizzato, per gli obiettivi che non aveva, per quell’amore ascetico eppure terreno che aveva perso. Per sempre. A soli 18 anni quel giovane allampanato aveva già percorso una vita intera in pochi mesi. Amando, soffrendo, conoscendo la morte, scegliendo di vivere. Una qualsiasi vita.
Aveva deciso di rimanere, agganciato alla sua esistenza terrena, con le unghie e con i palmi, con i denti e con la bocca, immaginando un libro insignificante letto al capezzale di Charlie. Un libro che nella sua immaginazione era diventato l’insana poesia interminabile che un arabo pazzo aveva indirizzato ai morti. Invocandoli e chiedendo intercessione.

Il giorno dopo sua madre e le zie si accorsero dei suoi ritardi, e capirono dal suo pallore verdastro. Howard fu ricoverato poche stanze più avanti di Charlotte giorni prima, lo portarono cosciente e lucido. Sapeva, sentiva che il peggio era passato che quel male fulminante non lo avrebbe preso, pensò solo a superare la pedanteria delle cure con la naturalezza di un’incoscienza, solo apparente. A gestire la nausea. Si beò beffardo dell’ansia delle zie e di sua madre, osservò la fredda asetticità dei medici, rimase olivastro in attesa. Di potersi alzare ed andarsene. Aveva un desiderio, voleva raccogliere tutti i suoi scritti di adolescente e farne un falò, a chiudere col passato, a fuggire dal dolore, a ricominciare. Daccapo. Su nuove basi di insana ma incredibilmente creativa autogerminazione.
Era nata in questo modo una delle chiavi di produzione e lettura del suo scrivere. Howard aveva forgiato, concependolo nelle cavità cancerose del suo dolore, il mito cui mise il nome, anni dopo, di “Necronomicon”. Come un inno putribondo destinato a un mondo parallelo, di bruttezze indicibili, di mostruosità mai concepite prima, un lungo ricettario di formule diversamente composte e mai veramente specificate che sarebbero servite ai suoi racconti, come la falce per mietere vecchi punti di vista, la zappa per estirpare le zolle di obsoleti capisaldi della letteratura orrorifica. Nel momento in cui superava di slancio il terrore della morte e ne schivava agile e gelido le sue concrete spire, Howard realizzò che il suo obiettivo più ambizioso sarebbe stato quello: non di vivere una vita ricca di successi e denaro e amore, in varie forme attinto, ma semplicemente di creare un mondo parallelo. Grazie alla sua penna, alla sua incredibile immaginazione che gli aveva permesso di salvarsi. La radice vera del suo immenso talento non si sarebbe dunque innervata su un terreno che ormai considerava banale e già ascoltato, ma si sarebbe poggiata su un originalità assoluta, ora che poteva permettersela, ora che la sua stessa vita, lui credeva, era stata salvata dalla propria creatività. Proteso su un pitale laccato a immaginare il suo libro in pelle umana a recitare formule, inni, invocazioni ai morti e ai loro demoni. Negli anni la sua produzione, per quanto svilita da pubblicazioni in riviste non all’altezza, da lettori non sempre attenti; mortificata da retribuzioni irrisorie, si sarebbe poggiata su quella base. Una base unica, irripetibile, ineguagliabile. Perché nata nell’anima e nella mente di un uomo unico, per la sua mediocrità nella scelta di non sentire nell’immediato, per la grandezza del suo autogerminare, attingendo dal “non sentito”. Anestetizzando l’immediato, attingendo nel profondo del suo vissuto.

Sotto quella betulla Lovecraft non smise di piangere silenzioso, si concesse solo una piccola pausa, ruvida sotto gli occhi, per le lacrime seccate dalla brezza. Godette del paesaggio bucolico di quello stralcio di New England, si beò, proprio come un “timeout” in una partita di football, della bellezza di tutto quel verde che lo circondava, con le casette in lontananza, le staccionate bianche e i viottoli di pietra che disegnavano iperboli fra i prati. Capì il perché aveva scelto quel punto nell’abbraccio alla sua Charlotte, si sentì sciocco per essersi privato di tutto quello, si scoprì indulgente nell’averlo deciso per sopravvivere. Era un’indulgenza che partiva da lontano, dalla consapevolezza di aver patito, oltre ogni limite.

“Howy non tradire mai il tuo talento. E’ un dono. Tieni le briglie in mano…” Le aveva sussurrato Charlie l’ultima sera, mentre lo guardava con gli occhi lucidi nel pallore. “Qualsiasi cosa accada non rinunciare mai ai tuoi sogni, alla tua vocazione. E’ una cosa bella, destinata alle persone rare. Non ti lasciar andare... Mai.”.
Lui non si sarebbe lasciato andare, avrebbe assecondato il suo talento. A lui avrebbe sacrificato tutto. La volontà di morire nella notte, quella di vivere una vita normale, fatta di pulsioni, di passioni, di emozioni, le stesse che invece schivava afferrandole di sbieco e depositandole nella sua anima, come si fa con dei vecchi vestiti smessi nell’armadio in soffitta. Aveva assecondato Charlotte e quel suo dire in punto di morte, aveva piegato la sua vita. A partire dall’istante in cui il suo amore se ne andava, lasciandolo solo. Non avrebbe tradito il suo talento, non lo avrebbe tradito al punto da sacrificargli tutto, da quella voglia insana di lasciarsi prendere dalla morte, fino a quel sentimento mutilato che lo aveva cinto a Sonia. L’ultima vittima di quel “mostro” che si era costretto a diventare. Tutto immolato sull’altare del suo scrivere.

Quando le prime luci cominciavano ad accendersi fra le casette della periferia di Providence Howard Phillips Lovecraft era ancora lì a fare il suo bilancio, partito da una macchiolina nera fra le unghie, prorotto squilibrato sotto un lavabo, continuato commuovente e patetico sotto una betulla.
Restava l’ultima domanda, la più tragica per lui. La più importante, naturalmente. Quella che un uomo normale, che ha voglia di essere o di ritornare tale, non può non rivolgersi se fa un bilancio. In qualsiasi momento esso arrivi.
“Ne è valsa la pena?” Si chiese a voce alta che aveva smesso di piangere e vagava con lo sguardo perso e sconcertato. “Che cosa ne ho fatto del mio talento? – proseguì poi, nella sua mente, mentre scriveva sul suo taccuino – Quali ne sono i risultati? Chi ne ha giovato? Se avessi saputo che ne avrei goduto solo io, solo la mia vanagloria, avrei scelto diversamente, forse mi sarei lasciato morire con la faccia in un vaso da notte.
Non è stata vita senza Charlie, non è stato che sopravvivere scrivendo. Non ho avuto che incubi e rabbia da vergare, non ho sentito che mostri, non ho visto che demoni. Li ho afferrati e li ho messi su carta. Facendo solo finta che fossero il frutto astruso della mia creatività. Ma essi non sono “frutto”, non sono nemmeno albero, sono solo lacrime che non danno vita. Emozioni mai vissute che generano fugaci emozioni per gli altri, mentre tu sfoltisci la tua anima e ti rendi vuoto come una bottiglia che galleggia senza una meta”.

Poi rialzò lo sguardo e fissò un punto qualsiasi, mentre i suoi occhi rivedevano la giovane Ripple. Si domandò per la prima volta nella sua vita se tutto quello non fosse stato che un tragico equivoco. Una di quelle circostanze per le quali ti viene detta e consigliata una cosa e tu la ritagli su te stesso, come se ti calzasse in pieno, quando in realtà essa è rivolta ad aspetti di te che nemmanco conosci.
Charlie amava Howard e lo conosceva come una giovane donna può conoscere il suo ancor più giovane uomo. Questo pensò Howard per la prima volta calandosi nel cuore del suo eterno amore, per la prima volta amando lei profondamente, la sua anima e non il riflesso che da questa si produceva sui propri sensi. Si disse che Charlie lo sentiva forte e passionale, unico per la sua capacità di amare e di smuovere le proprie emozioni per renderle materiali, fruibili per quel “noi” esondante che investita e trasformava tutto, gestendolo al servizio dei due giovani innamorati.
“…Che cosa poteva c’entrare in tutto questo la mia scrittura? I miei racconti onirici? La mia ingenuità creativa?..”
Charlotte Ripple aveva ascoltato i racconti giovanili di Howard, aveva sorriso, si era emozionata a quel periodare ancora acerbo ma incredibilmente calzante per le immagini del ragazzo che si mostrava, di settimana in settimana, sempre più creativo e trascinante; ma il suo sguardo.
Il suo sguardo, valutava ora Lovecraft sotto quell’eterna betulla, il suo sguardo non si beava del talento, di quel talento di scrittore in erba. Quei sorrisi non erano per la fluidità di quel periodare, per la contiguità fra l’immaginifico e il reale che nel suo produrre cominciava ad emergere. Charlotte non si beava di quanto fosse bravo a scrivere e a immaginare il suo giovane uomo. Forse non era nemmeno in grado di capire dove quel talento potesse portarlo. Lei..
“..Lei mi amava. Mi amava nonostante le mie bruttezze, malgrado la mia goffaggine. Non le importava in fondo della mia scrittura, se non come mezzo mio, straordinariamente personale, ma solo come mezzo…”Allora un’idea sconcertante nella sua semplicità luminosa, come un cuneo che s’infila nel conscio e si fa strada in virtù della sua forma acuminata e levigata come un semplice passaggio in un calcolo aritmetico, cominciò a pervadere la sua razionalità, a diventare padrona delle sue certezze su quelle ultime parole della sua unica vera amata.
Fu come scoprire, dopo un lungo viaggio destinato alla trasmissione verbale di un messaggio mnemonico, che si è dimenticato cosa dire. Ma Howard non aveva dimenticato. Cosa ancor più grave, aveva frainteso. Con la semplicità di un ragazzotto. Aveva ascoltato attento e commosso e si era infilato a forza le parole della sua compagna, come si fa con un abito stretto.
“..Il mio scrivere, il mio talento nel farlo. Le mie immagini, la mia creatività...Non a quelle erano destinate le parole di Charlie. Solo all’uomo, forse, alle sue emozioni, alla capacità di pulsare, di percuotersi in un amore, di donare tutto se stesso…”.
La vocazione che la sua Charlotte intendeva era “solo” la sua capacità di amare, di vivere, di emozionarsi, di godere dell’attimo e di renderlo un’eternità. Il suo dono era quello di poterne gioire e poterne fruire, come di un corpo agile slanciato nell’attitudine dell’atleta più vincente.
Nella sua bionda semplicità, Charlotte Ripple aveva divelto le porte dell’anima di Howy ed era stata investita come da un vento caldo che ti accoglie, spalancata la porta di casa in inverno. Ne aveva goduto, vi si era assopita, stupendosi di tutta quella grandiosità. Aveva, unica nella vita di Lovecraft, gettato uno sguardo nel cuore di quel giovane che diventava uomo. Aveva visto cose meravigliose, le aveva giudicate “talento”, aveva invitato il suo compagno a prendersene cura. A proteggere quella capacità di sentire. Di provare. Di vivere. Dal momento in cui lei non avrebbe più potuto. E Howard che cosa aveva fatto?

A 36 anni, sotto quella pianta, ormai a sera, con le lucine delle case sempre più definite nell’imbrunire, Lovecraft non sentì più il bisogno di piangere, mentre toccava la radice delle sue scelte più profonde. La stessa freddezza, prodotta da quell’antico equivoco, gli permise di realizzare la tragicità emotiva del suo errore. Diciotto anni prima.
“…Io ho vissuto a contrario. Ho tradito, senza saperlo. Ho gettato, quando avrei dovuto fruire, ho bruciato, mentre avrei dovuto scaldarmi. Ho sacrificato tutto a quel mezzo che è lo scrivere. Avrei dovuto vivere, non importa dei miei racconti, della mia creatività. Ho fallito, vivendo una vita monca fino ad ora. Sacrificate le membra del mio pulsare a un finto dio...Non fu l’ambizione, nemmeno la vanagloria, fu il bisogno di proteggere il mio talento. Sbagliato”

Sarebbe bastato a quello scrittore per larga parte incompreso, concedersi la possibilità di ripensare a quei giorni di Charlotte, senza celarsi il ricordo nell’animo. Sarebbe stato sufficiente concedersi allora, il pianto che lo investiva adesso. Sarebbe cambiato tutto. Il suo talento di scrittore sarebbe stato investito dalla sua emozione quotidiana, Howard avrebbe affrontato e gestito le proprie pulsioni come fanno tutti gli uomini “normali”: vivendo, vivendole. Lasciandosi frenare anche, tarpare le ali da quelle, giorno per giorno; ma godendo infine di poter vivere una vita vera. Senza viaggi onirici, mostruose creature inesistenti, ma con tanto più reale nella sua vita, da renderla concreta, con un peso ed una forma diverse da quelle fatue vergate sulla carta nei suoi romanzi. Ad Howard Phillips Lovecraft restarono solo quelli, infine, insieme alla così magra consolazione di aver capito se stesso, sceso in fondo alla propria anima, come farebbe uno spericolato speleologo. A esplorare ciò che da sempre si è celato, ma in tempi e momenti troppo diversi da quelli che erano opportuni. Per evitarsi di bruciare così larga parte dell’esistenza, votata fin lì ad autogerminazioni assurde e di inarrivabile bellezza.
Le sue lacrime di diciottenne, versate dall’uomo di oggi, ebbero il sapore amaro dell’irreversibilità di una condotta di vita sbagliata, appoggiata su un orrendo equivoco.
Sì, sarebbe bastato si fosse fermato a pensare alle parole di Charlie almeno una volta in quegli ultimi diciotto anni. Tutto sarebbe stato diverso.

Ormai a sera, ciondolando attonito giù dalla collinetta verso la periferia di Providence, lo scrittore respirò in pieno quel profumo di primavera inoltrata. Lo fece come un gesto normale, da uomo comune. Chiuse gli occhi è immaginò un momento della sua vita. Uno qualsiasi legato a quei profumi. Era questo un primo gesto istintivo di vita che viene vissuta, mentre passa e se ne va.