mercoledì 11 marzo 2009

L'occasione della forma 11^ - Pianto di Esteban


“El Forat Vermell” era il luogo notturno deputato ai divertimenti più bizzarri in quella Barcellona. Si scendevano due rampe di scale circolari, ci si faceva aprire con discrezione e si entrava sobri. Per uscirne chissà come. Ma certamente intrisi di fumo di sigaretta. Esteban lo conosceva bene e ne apprezzava l’originalità, al di là delle orchestre che ogni sera si esibivano e che non suonavano mai la stessa musica. L’orario giusto per arrivarci era fra la mezzanotte e l’una. Il sabato sera poi, era un fiorire di astrusità: ci si poteva incontrare, accanto all’artista di tendenza, al pittore dal lunghi baffi, la sobria commessa di giorno, che diventava la sfrenata ballerina di fox trot la notte. Con il trucco che alle prime ore dell’alba cominciava a colare e il corpo che faceva sempre più fatica a tenere il ritmo. C’erano giovani avvocati con porcellini al guinzaglio, distinti professionisti vestiti in longuette e bellissime donne con baffi posticci.
Cerveza, hashish e morfina erano gli antipasti di notti insalubri che raramente portavano a legami stabili. Fossero di sesso, di sentimenti o di amicizia. Ci si poteva incontrare in quel “buco” di duecento metri quadrati o poco più, amarsi, legarsi da profonda amicizia e poi ignorarsi il giorno dopo, magari se ci si incontrava per la strada.
Il bello di quel locale notturno risiedeva in larga parte in un muro di mattoni rossi alto un metro e ottanta a circa due metri dalla parete in fondo, con un piccolo buco perfettamente circolare a mezza altezza. Si diceva che una volta persa la lucidità, ci si doveva affacciare, proprio come nel gesto di spiare dalla serratura e, a seconda di dove l’occhio sarebbe caduto, si sarebbe capito cosa aveva in serbo il destino. Per il proprio immediato futuro.
Non di rado, era capitato a qualcuno di affacciarvisi e di inquadrare qualche viso inatteso. Si diceva che molti, ragazzi o ragazze che fossero, avessero avuto la prima e spesso unica esperienza omosessuale, grazie a quel buco e che molti artisti da quelle visioni circolari avessero tratto alcune delle loro opere più belle. Fonte di ispirazione, di istinti pornografici, di elegiaci pensieri che fosse, quel sabato sera Esteban vi si era attaccato come un bambino. Ubriaco fradicio, aveva centrato in pieno una improvvisata ballerina dai capelli neri. Aveva ammirato le sue gambe , il suo personale, la sua bocca procace.
Poi, impercettibilmente barcollante, gli si era avvicinato.
“Sì può fare – gli aveva risposto sorridendo, nel frastuono sfrenato della musica – ma mi devi pagare. Stasera costo 1 peso…”
Lui l’aveva guardata stranito e lei aveva aggiunto: “Il prezzo non conta Amancito…Stasera io sono una puttana e tu ti chiami Amancito”.
Un sorriso annebbiato di Esteban aveva concluso l’accordo di scambio che si sarebbe formalizzato a casa del giovane architetto. Quella notte aveva preso della portoghese tutto quello che un uomo può prendere, senza esclusioni che la libidine possa accettare. Cos’altro poteva importare a Esteban Labruna, giovane di bell’aspetto e di passioni sfrenate.

La folla stava zitta quella domenica mattina. Ritti e silenziosi, Anziani, uomini, donne e bambini. Come in attesa di qualcosa, di un accadimento prossimo e sconcertante. Esteban tagliò le ultime file di astanti e con passo lentissimo si sganciò da Rinaldo e dall’altro uomo e si pose come alla guida di quella moltitudine fissa.. Come se con l’emergere dalla massa volesse caricarsi di quella responsabilità, gridare al mondo intero: “E’ colpa mia. E’ colpa mia”.
Era, anche, colpa sua.

“Parliamoci chiaro Labruna: lei non ha talento. Lo dicono i suoi compagni dell’accademia, lo dice il suo trascorso di studente, nelle segnalazioni dei suoi insegnanti. Eppure ha frequentazioni di prestigio…” Il viso scavato dell’uomo vestito di nero, faceva a pugni con quel crocifisso d’argento massiccio che gli penzolava, incatenato al collo.
“..D’altra parte Barcellona oggi non ha bisogno di altri architetti di talento. C’è bisogno d’altro. Suo padre, buonanima, le ha lasciato una discreta eredità. Sufficiente a vivere una vita agiata senza essere…Senza essere un maestro nelle arti e nella progettazione. Lei ne è consapevole, a giudicare dall’impegno, chiamiamolo così, che ha profuso fino ad oggi nei suoi studi. Vero è anche che le sue rendite non le permetteranno a lungo una vita così dispendiosa…”
Esteban lo aveva guardato con un abbozzo di sorriso indisponente che si era via via annacquato nella simulazione. Era tutto vero. Talmente vero che gli faceva male sentirselo dire. Così era, mentre nella stanza della curia dove era stato inspiegabilmente convocato, assisteva all’analisi della sua vita. Allo smontaggio delle sue velleitarie ambizioni. Neanche il tempo di prendere l’abilitazione e già era un fallito.
“…Questo ritmo di spese, caro Labruna, non potrà condurla molto lontano. Vorrei che ne fosse consapevole. Vero è anche che a un giovane in salute e di bell’aspetto e buone maniere occasioni non mancano. E non sto parlando solo di occasioni…Di occasioni giocose”. Esteban era arrossito alla metafora dell’alto prelato.
“Con questo, certa parte della curia intende offrirle un’opportunità. Che sia di espiazione per l’anima da un lato e giusta occasione remunerativa dall’altra. Un modo per riscattarsi dalla sue abitudini dissipate. Perché sono queste, Signor Labruna, quelle che hanno attirato la nostra attenzione.
Conoscevamo tutti suo padre che come sarto e uomo timorato di dio si è fatto molto apprezzare in questa curia e con questo vorremmo in qualche modo onorare la sua memoria”
“Lascia stare la memoria di mio padre” Pensò Esteban che non ebbe il coraggio di fiatare
“L’incarico che vogliamo offrirle giovane Labruna è molto semplice….”.
Si trattava di diventare, su pressione della curia, collaboratore di Antoni Gaudì. Si sarebbe trattato di assisterlo, accompagnarlo, nel lavoro e, dove possibile, nella vita privata. Si sarebbe trattato di vedere, capire e riferire. Il perché di questo rallentamento dei lavori e non solo: lo stato mentale e fisico del genio della Pedrera.
Si sarebbe trattato di fare la spia. Viscida, maleodorante e vigliacca. In cambio di un posto di rilievo nell’amministrazione del patrimonio urbanistico della Chiesa Catalana allo scontare della sua missione. In cambio anche del perdono per tutte le “malefatte” di giovane che non voleva altro che godersi la vita.
Aveva accettato subito e di Don Gaudì, in virtù dell’imposizione ecclesiastica che ne finanziava i lavori, era diventato come un sussiegoso parassita. La sua affabile assistente di giorno, la sua sconcertante ombra la sera. Quando i movimenti dell’architetto di Dio, peraltro ben poco agili e frequenti, ne consigliavano la presenza.
Antoni lo aveva scorto subito, sin dal loro primo incontro, quando Esteban si era presentato allo studio col baffetto virtuoso e il capello ingelatinato e lo aveva accettato. Forse come un dazio da pagare, probabilmente come un’ennesima forma espiativa, certamente non come un peso. Almeno a giudicare dal fatto che non fece mai nulla per nascondergli qualcosa, ne tantomeno per eludere quella presenza.
Una volta, qualche mese prima, ne avevano anche finito col ridere, quando sornione, Don Gaudì aveva prorotto improvviso : “Serve un altro finanziamento, per sbancare verso ovest… Esteban ci devi pensare tu quando andrai in curia a riferire”
Esteban, soprappensiero aveva replicato immediato: “Io lo faccio sempre presente Don Gaudì…” Salvo poi mordersi la lingua, quando aveva sentito, sommesso, il risolino dell’architetto steso sul tecnigrafo. Ne aveva, alla fine, riso anche lui. E il loro ridere si fuse.
Quello di cui Esteban era certo, era invece che l’anziano non aveva presente fino a che punto egli avesse preso a stargli dietro. Da prima come compito assegnato, successivamente come dovere preciso che sentiva verso l’uomo innanzitutto e poi verso la sua terra, dal momento che stimava quel possente essere ricurvo, un vero patrimonio della Catalogna.
Nelle pieghe della sua ombrosità, fra le sfumature dei suoi modi asciutti e stantii, nelle sue assenze e nel suo sguardo dolce e vivido, aveva quindi finito per apprezzarlo, al di là del suo genio.
E per volergli bene.

Fu questa una delle cose che Esteban Labruna da Cadaqués realizzò nella calle de Los Fuentes quella domenica mattina. Fu un sentimento che esulava dal dovere, dall’umana pietà e ricadeva con un tonfo sordo e greve sui suoi affetti più profondi. Qualcosa che fioriva colorato dentro di sé e immediatamente appassiva, frantumandosi poi, come fiore rinsecchito che si sgretola.
Sentì per la prima volta come implode un affetto vero, quando lo si riconosce nel momento in cui si rischia di perderlo.
A tutto questo prendere coscienza, il giovane Labruna, mentre si avvicinava al suo maestro, dovette sommare tutto il melmoso senso di colpa per averlo abbandonato solitario al cantiere, la sera prima. Per averlo lasciato lì, a meditare nella penombra; a vagare fra colonne, impalcature, archi e progetti accennati. A volare in cerca dell’anima del manovale diciassettenne che era caduto; a ricadere in quell’assurdo e ridondante senso di colpa.
“Come posso essermene andato? Come posso averlo fatto?”
Rivide il suo viso fra le cosce di Estrela e si fermò a un metro da Don Gaudì, alzò il capo al cielo come a fermare un oceano di lacrime con l’aiuto della forza di gravità.
Poi strinse i pugni e i suoi occhi cerchiati di rosso si puntarono sull’anziano architetto.

“Don Gaudì…Don Gaudì” Sussurrò, sforzandosi a una voce serena, mentre il suo giovane corpo si fletteva, inarcandosi verso il basso.

Inginocchiato a capo chino, con i capelli arruffati Antoni Gaudì stava. Più in attesa di esecuzione, nuca alla luce, che in preghiera. Come innaturale arredo, nel mezzo di una via lastricata di ciottoli.
Una posa che davanti a una chiesa avrebbe esaltato l’immagine dell’architetto di dio, ma che davanti a un casa parlava di pazzia allo stato puro.

“Don Gaudì mi guardi, prego” Rifece Esteban, dopo essersi voltato un istante verso la folla alle sue spalle. “Cosa succede Maestro? Come posso aiutarla?” Il cuore di Esteban riprese a pulsare normale, come ravvivato da nuova forza interiore.
Nell’immobilità silenziosa dell’anziano, come per meglio averne visuale, Labruna si sedette per terra alla sua destra e, calmo, gettò gli occhi al suo viso.
Osservò la sua giacca strappata all’avambraccio, e i segni di una notte insonne sulla faccia, scacciò via il pensiero ridondante dei suoi bagordi e si concentrò sul corpo del suo maestro, collo sbottonato.
Fu dopo qualche minuto che Antoni Gaudì si voltò lento verso il suo assistente e lo guardò.
Come se non lo riconoscesse.
“Don Gaudì come si sente?” Gli sussurrò vicino.
I suoi occhi erano pieni di una stanchezza decennale, disorientati come quelli di un bambino che balbetta e non sa venire a capo della sua frase disconnessa. Si perdevano a destra, poi a sinistra e ritornavano su Esteban come se cercassero qualcosa di smarrito in un istante. Movimenti lenti nel roteare e per questo dolorosi, senza quella mobilità, quella gioventù ambiziosa che avevano fatto dello sguardo di Antoni Gaudì forse l’unico vero biglietto da visita del suo genio.
Esteban non volle fermarsi a quegli occhi. Accarezzò il viso del suo maestro come farebbe un figlio con un padre e si alzò di scatto.
“Signori prego, ascoltate…- si rivolse al centinaio di presenti – Il maestro Gaudì non si è sentito bene questa notte. Io mi scuso…Lui si scusa per questo spettacolo inusuale”
Poi rivolse un’occhiata d’intesa a Rinaldo che a sua volta si voltò dalla prima fila, verso la folla.
“Io vi prego, tornate a casa. Mi prenderò cura io di Don Gaudì. Non vi preoccupate non è successo niente di grave… Grazie. Grazie ancora”
E così facendo allargò le braccia con un gesto a metà fra lo sconsolato e il riconoscente. Con l’aiuto discreto del capomastro, piano, riuscirono a disperdere la gente della calle.
Poi, mentre il brusio si dissolveva, Esteban tornò sull’architetto che vagava con lo sguardo, come uscito da coma vigile.
Lentamente lo aiutò a sollevarsi, ne spazzolò i pantaloni all’altezza delle ginocchia, ebbe compassione per quelle vecchie articolazioni, e per un attimo guardò la casa davanti alla quale il suo maestro era stato genuflesso per ore.
L’edificio ricoperto di mosaici nel quale predominavano i toni caldi, ricordava negli slanci, certo modo di concepire forme, tipico del modernismo naturalista al suo stato embrionale, quando il concetto di curva, come nuova via della strutturazione degli edifici abitativi era ben al di là da venire o dall’essere attuata. Un’evoluzione di cui avrebbe dettato tempi e modi soprattutto Antoni Gaudì.
Non ebbe tempo per ragionare sul perché di quel prostrarsi del suo maestro, davanti a quella casa. O non volle, semplicemente.
Passandosi l’avambraccio sulla fronte, mentre Rinaldo aiutava Antoni, pensò che la cosa più importante era la salute del suo maestro. Non gli importava nulla del suo senno. Voleva solo stesse bene. E lo voleva con tutta la rabbia arrogante della sua gioventù.
Avrebbe dato ogni cosa per quella certezza.
Sul furgoncino che lo portava allo studio del maestro, Esteban cinse un braccio attorno alla spalla di Antoni Gaudì e piano, guardando fuori dal finestrino per nascondersi, cominciò a piangere di un pianto strozzato. Da uomo adulto.