giovedì 19 marzo 2009

L'occasione della forma 13^ - Derecha...Izquierda


La mattina dopo Howard fu in piedi di buon ora. Si vestì, effettuò la solita operazione alle sue unghie che si curò anche di limare leggermente, una volta assicuratosi un colpo di barba. Salutò Paco con una stretta calorosa, inusuale per lo scrittore e quindi si vide consegnare due fogli scritti a mano. Era la lettera per Antoni tradotta in spagnolo. Quelle poche righe con cui gli comunicava tutto il suo stupore, la sua gioia e la sua ferrea volontà di accettare quell’invito a Barcellona. Paco gli fece un ultimo cenno repentino con la testa, sulla rampa delle scale. Un su e giù col capo d’inequivocabile e promettente origine amicale. Lovecraft rispose con un sorriso della sua bocca sottile e poi si tuffò nel vociare del “Barrio” di New York, entrò nella prima drogheria svoltato l’angolo e acquistò busta e bolli per l’affrancatura. Imbucò la lettera tenendola come il “Santo Graal” pochi passi più in là.
Quindi passeggiò per le vie di quella “città nella città”, ma il suo sguardo fu più indulgente, nei confronti del caos sudamericano che vi regnava, verso la sporcizia e il degradarsi delle facciate in vago stile coloniale. Ascoltò le lingue in quella passeggiata e giudicò di aver incrociato non meno di cinque idiomi diversi fra quelle vie. Lo spagnolo dominava nella parlata veloce dei cubani e dei dominicani, regalando un’impronta caraibica a quello spicchio di New York, che si arrotondava velocizzandosi, mentre si adagiava sul portoghese degli immigrati brasiliani. Gruppetti di ragazzini, si stupì scoprendolo, avevano poi gettato dei ponti fra le due lingue, come dei trait d’union lessicali fra le due parlate iberiche. E finivano per usare termini che Howard continuava a non conoscere, ma che erano la fusione musicale dei due periodare. Non c’era dubbio.
Era un mondo curioso, dove i molti messicani facevano squadra a sé e dove non c’era spazio, si capiva benissimo, per altre razze. Irlandesi o italiane che fossero. Di questi ultimi, giudicò i latino americani come una evoluzione più accettabile, più addolcita. Senza vestiti dai colori sgargianti, senza volgare gesticolare, senza sopracciglia ombrose e fronti brachitipe. “La differenza - si disse - è che un gesto generoso di quelli, può nascondere fosche intenzioni, mentre al Barrio quello che appaiono, sono”.
In generale ammirava le lingue neolatine. Tutte, indistintamente e, anzi, ne invidiava l’articolazione lessicale, quel vocabolario variegato e sfaccettato che la sua lingua, invece, riproponeva ridotto, asciugato. Fraintendendo ed essendo frainteso. “E’ come – si disse, seduto sulla panchina di un parco – avere infinite possibilità in più di spiegarsi, di argomentare, di descrivere, senza ricorrere alla ripetitività in alcuni casi sconcertante della lingua inglese”. Invidiò per questo il suo nuovo amico De Los Rios. Invidiò la sua capacità di unire e disunire le due lingue, il suo cesellare frasi spagnole in mosaici di lingua inglese. Rendendosi demiurgo di un nuovo, personalissimo ed esclusivo modo di spiegarsi. Probabilmente era vero: Paco non era un poeta, ma un ingegnere del periodare. Un uomo che gettava ponti e fondamenta per idiomi e fra idiomi. Come un capomastro di una possibile torre di babele. Si scoprì fortunato ad averlo conosciuto nel momento in cui il suo percorso faceva genuflessa sosta davanti al genio, tutto catalano, di Gaudì. Una sosta che sperava più lunga possibile.
Ai confini del Barrio, mentre s’indirizzava verso la prima fermata agibile della metro newyorchese, fu poi testimone di una scena che gli avrebbe fatto cambiare percorso, intenzioni. Osservò sulla rampa delle scale sconnesse di un palazzo mal tenuto, un giovane padre con le gambe aperte a rinchiudere protettivo il suo bambino creolo.
Non capì che cosa lo attrasse, forse il candore della scena, forse il profumo del fiorista accanto, più probabilmente la voce di un papà in pantaloncini corti che insegnava parole al figlio “Derecha…Izquierda…” E poi ancora “Derecha…Izquierda..” Il bimbo di forse un anno, lo guardava stranito, come a volergli dire “Non scocciarmi babbo, è troppo presto”, mentre il papà poco più che ventenne, in canottiera, gli tratteneva le manine, allargandole e chiudendole secondo la posa ritmica di ““Derecha…Izquierda…Derecha…Izquierda”. Alla quinta volta il bimbo era prorotto in un pianto di spiegazione evidente. Lontano dalla sofferenza, più vicino all’assillo. Il padre lo aveva tirato su con le due mani e prima di portarlo a sedere sulla sua coscia levigata, aveva portato il suo piccolo musetto sudamericano alle sue labbra, mordendolo con quelle. Come se avesse voluto riassumere tutti i baci del mondo in un gesto solo.
Un gesto che trovò Lovecraft emozionato e, pungente, tornò quel pensiero. Si disse che trentasei anni cominciavano a essere troppi per avere un figlio e si trovò mille giustificazioni. Si disse del suo lavoro, si disse delle donne, quelle poche, e pure sbagliate, ritornò sull’inadeguatezza di Sonia. Sulla sua sterilità emozionale, sul fatto che avesse sette anni più di lui. Un’età improponibile.
Pensò poi di trattenere i pensieri più fendenti, arginandoli con i “Come sarebbe stato?…Che viso avrebbe avuto?…Che sogni avrebbe fatto?…” Le solite domande che si fanno gli uomini e le donne in vena di malinconie. Ma questa volta quella non c’entrava nulla. Howard lo sapeva.
Che carne avrebbero avuto i suoi figli, e che lingua, e che voglia di vivere, lui, si disse davanti alla fermata che s’infossava nella metro, lui non aveva davvero voluto saperlo.
Aveva schivato il colpo come fa un pugile già abbastanza suonato prima di salire sul ring. Che non ha forze per picchiare duro e ne cuore, ma solo agilità per schivare “Destra sinistra…destra sinistra…”. Alla fine ce l’aveva fatta. Il suo tempo stava scadendo, non aveva preso un pugno che fosse uno. Era intatto nella sua inutilità genitrice
“Destra..sinistra…destra..sinistra” aveva sgambettato nella metro e aveva deciso di dirigersi alla stazione centrale e senza saperlo aveva gettato lui un ponte col suo passato.

“Che cosa fai?” Aveva chiesto Sonia, appoggiata alla sua spalla, ormai più di quattro anni prima
Il treno era affollato e fumoso. Avevano trovato posto, solo a fatica, seduti sui gradini del vano borse. Pigiati, stretti, innamorati.
C’erano i progetti, c’era l’amore, c’era la passione.
“Niente…Ti tocco il braccio” Gli aveva detto Howard sorridente, mentre con un dito accarezzava quella pelle bianchissima, ancora tonica sulle braccia e sul viso.
Eddai…”
“Lasciami fare –aveva steso il suo ridere lo scrittore – voglio vedere, sentire che carne avranno i miei figli”
E su quello sguardo si era steso buio, come un velo di tristezza, di equivoci mai chiariti, mentre quell’idillio di serenità lasciava il posto a un’assenza di parole che fecero male subito. A entrambi.
Era stata quella l’unica volta che Howard ci aveva creduto, mentre il suo credere si spegneva per il fatto stesso di essersi acceso.
“Voglio sentire che carne avranno i miei figli”

Staccò il biglietto per Cleveland e si immerse nella lettura di altre bozze di racconti.
Quello lo faceva stare bene, lo faceva pensare senza pensare, rendeva altro da sé tutta la realtà che lo circondava. Rendeva più semplice lo staccare le spine, senza accorgersi che gli veniva sempre più facile. Niente sensi, nessuna percezione, solo emozione. Quella che viene da dentro e che ti permette di raggiungere vette inesplorate di originalità, di mirabolante complessità estetica.
Era già stato abbastanza per lui, compiere il gesto intenso e istintivo, di decidere per quella tappa. Per quella giornata non ci sarebbero stati altri contatti con la realtà, si poteva, si doveva progettare, scrivere, emozionarsi. Da soli, da dentro, come anfibio ermafrodita che ha in sé entrambi i semi della procreazione. E si feconda da solo. Come essere che basta a se stesso. Alla sua specie.
Viaggiò di notte e scrisse alla luce della sua piccola lampada portatile nella carrozza vuota.
Progettò di Cthulhu e della sua progenie, abbozzò altri racconti, gettò la sua immaginazione al di là di qualsiasi ostacolo. Si fermò sulle forme animalesche. Aggirò, saltò, rimandò. Come setaccio di cercatore d’oro. Il suo periodare si spinse sull’azione, sul dialogo riportato che non amava, indugiò sulle descrizioni mostruose, come inusuale blocco al suo creare.
Non ebbe paura di aver smarrito il filo, semplicemente omise e omise ancora. Come bimbo che scarta la verdura nel piatto e infilza la forchetta nel trancio di pollo arrosto.
Nessuna madre degli scrittori allungò uno scappellotto su di lui.
Dormì tre ore, prima di giungere a destinazione.

La sua destinazione era uno stanzone grande, diviso dal vano entrata da un bancone di legno. Al di là del quale una fila lunghissima di scrivanie identiche, confondeva la vista. Se non fosse stato per il movimento femmineo che l’animava, Howard avrebbe giudicato che fosse un carcere per scrittrici di chissà quale attitudine. Prone sulle scrivanie, buttando l’occhio sui fogli accanto, donne sobriamente vestite battevano continue sui tasti delle “Remington”. Sagome inconfondibili queste ultime, per uno come Lovecraft.
Chiese di Sonia, attese qualche istante e da una delle file di destra, la sua volitiva sposa, occhialetti al naso, si alzò inconfondibile. Sembrava non invecchiasse mai. Lo pensò ancora una volta vedendola avanzare verso di lui, con il suo sguardo altero, pieno di dignità.
“Ciao Howard”
“Ciao…Sono venuto a farti un saluto”
Dopo aver parlottato, decisa, con l’anziano capoufficio, Sonia Greene raccolse la sua borsa e uscì con Howard.
“Allora, dimmi?” Incalzò dolcemente, eppure aggressiva, facendo capire da subito a suo marito che, per quell’unica volta, sarebbe stata lei a condurre il rapporto. Lei avrebbe detto, lei avrebbe spiegato.
“ Volevo…Volevo parlarti. Non si è detto nulla di questa decisione che hai preso. Volevo capire”
L’aria era fresca, il lungolago di Cleveland era animato da un bel sole.
“Tu vuoi capire? –sorrise senza ironia – E che c’è da capire Howard? I miei cappelli non si vendevano, non sono rientrata coi creditori e ho chiuso. Me ne sono andata. Tutto qui”
“Sì, ma noi…”
“Noi niente, Howard. Non esiste un “noi”. Non è mai esistito”. Il suo viso era sereno, come le sue parole, a dispetto di quelle. “Non lo so se per colpa mia.. Non lo so. So solo che non ci sei mai stato, anche le poche volte che c’eri. Scusami Howard…Forse per te le mie parole sono troppo semplici, ma io non trovo che queste per spiegare ora. Di noi due”
“Io non mi sono mai preso cura di te” Howard strinse forte il suo cappello nelle due mani.
“Io non ti ho amato per quello. Non ti ho sposato per rallentare il tuo incredibile talento, con la mia mediocrità… Volevo solo che mi amassi. Nel tuo modo, qualsiasi fosse. Non ci sono riuscita. Sapevo che sarebbe stato difficile…Non pensavo che non avrei avuto nemmeno una possibilità, questo sì”
“Lo scrivere. I nostri progetti, i tuoi racconti. Volevo fare di te la parte migliore di me. Volevo…Vorrei..”
“I nostri progetti? – Sonia tirò leggermente la testa indietro, in un gesto di pacata stizza – I miei racconti?…No Howard, non esiste nessun “mio” racconto. Esiste..Esisteva solo il tuo talento proiettato su di me. Ho scritto per te, ho vissuto della tua vicinanza. Non quella fisica eh – sorrise senza malizia-. Ho vissuto del fatto che c’eri. Da qualche parte. Col corpo e con la mente. Ho attinto alla speranza che parte di quel tuo esserci, una piccola, magari infinitesimale parte, fosse a me dedicata. Nei tuoi pensieri, nel tuo cuore…”
“Nel mio scrivere..”
“No, in quello no. Mai, nemmeno una volta l’ho sperato. Sapevo già che quella era una cosa tua, imprescindibile, non divisibile. Sì, ho cercato di venirti dietro, ma eri sempre troppo lontano. Inarrivabile, anche nelle lettere che mi hai scritto. Il tuo scrivere, Howard, è una cosa grande, io sono troppo piccola per te – fermò il passo e lo guardò come a sperare di essere ascoltata – Lo è il mio talento, la mia emozione che è così diversa dalla tua… Ho cercato di farmi utile nella tua quotidianità. Sì, lo confesso: ho sperato di rendermi indispensabile in quelle poche settimane che mi hai concesso, ho spinto troppo. Sei scappato… Non c’è altra ragione, la spiegazione che devi darti è questa. Non ne esiste un’altra”.
Howard si sentì stupido. Non gli capitava mai, non sapeva gestire questa cosa. Così rimase per un attimo in silenzio e il suo sguardo si buttò oltre il muretto. Fra le discrete onde del lago Eire, volò sulle poche barche a vela in lontananza e poi, dall’alto ripiombò giù.
“Che cosa volevi fare Howard? – si disse – Perché sei venuto da Sonia?”
“Sei, almeno contenta di vedermi?” Le fece come un bambino
Lei gli sorrise fermandosi un attimo. Ancora una volta.
“Sono sempre felice di vederti Howard. Sono sempre in pensiero per te”.
Poi lo scrittore cominciò a raccontare del suo viaggio in Europa. Le disse tutto dell’Italia, mentre continuarono a passeggiare e lei lo osservava col suo sguardo severo che si scioglieva denso e profumato in occhi intensi e lucidi. Gli parlò di Antoni Gaudì e dell’invito a Barcellona “Dove – disse seduto al tavolo di un ristorante – sarebbe andato con la certezza che lo aspettava un compito importante. Che valeva una vita intera”. Le spiegò che non aveva voluto indagare nulla e che, il piacere di scoprire la sua missione catalana, lo avrebbe lasciato alle parole dell’architetto.
Non ebbe bisogno di raccontargli del suo stupore, della sua virulenta felicità, di quella nuova forza che animava il suo scrivere e la sua voglia di gettare le basi per nuovi racconti, secondo criteri per lui del tutto nuovi. Quelli della contiguità, del riferimento a una sola, grande madre orrorifica. Quella di Cthulhu. Storie che avrebbero avuto il privilegio di avere una matrice europea. Catalana. Con tutto il dispiegarsi di nuovi incredibili orizzonti ispirativi che questo comportava.
Sonia lo seguì con tutta la spossante brama della sua dolcezza, i suoi occhi s’ingrandirono e a tratti, si buttarono oltre il lago, facendo sfogare la sua immaginazione. Tutta proiettata su Howard, sui suoi sogni, sui suoi obiettivi. Il suo viso dal bel lineamento di donna dura e temprata, tradì tutta la infinita dolcezza, tutto il suo amore inespresso, custodito nel ventre, incatenato ora. Per non abbaiare, per non permettergli di proiettarsi su quell’uomo dalla bocca sottile e dal mento sporgente.
Fu l’ultimo atto d’amore di Sonia per Howard: ascoltare dei suoi progetti, dei suoi viaggi, del racconto, del suo futuro e sapere che non ne avrebbe fatto parte. Nascondere, trattenere in sé tutto l’amore, la forza dei suoi sogni. Che erano sogni così semplici: amare. Essere amata.
Howard no. Howard non si accorse di nulla, mentre raccontava e spiegava e vaneggiava. Non si accorse nemmeno del leggero tremore del labbro superiore di Sonia. Un impercettibile fremito che la donna ucraina occultò col fazzoletto, come a pulire chissà cosa.

Il pomeriggio inoltrato, scoccò l’ora dei saluti. Lovecraft si offrì di accompagnare Sonia al suo lavoro e ci fu un attimo di silenzio poco prima di arrivare.
“E tu cosa farai ora?” Chiese lo scrittore
“Sono qui alla Standard Oil. E’ un buon lavoro. Ho trovato anche casa, niente di che…”
Il viso della moglie si era fatto di nuovo serio,
Lui le prese le due mani “Senti Sonia…”
“Vai Howard. Vai” Lei si staccò, decisa e chinò il capo.
Lui si voltò continuando a guardarla col collo girato sui primi passi, con uno sguardo come di sconcerto e consapevolezza di sé. Dei propri limiti. Poi le diede la nuca.
A metà pomeriggio, le vie centrali di Cleveland si tornavano ad animare di figure maschili. Erano gli impiegati degli uffici, gli operai delle raffinerie, i manovali che lavoravano nella grande azienda dei Rockfeller. Howard vi si tuffò dentro, seguendo la scia in direzione della stazione.
Sentiva come un vuoto emozionale. Non si concesse il tempo di ripercorrere tutte le promesse che le aveva fatto e di vederla con gli occhi della sua anima, sola in una città che non era la sua a fare un lavoro che non era il suo.
Ritornò con la freddezza di un bambino incosciente a vagare con la mente sui suoi racconti futuri.

Sonia lo segui con lo sguardo per un po’, solo per un po’ ancora.