martedì 7 aprile 2009

L'occasione della forma 17^ - Sotto il lavabo


Howard sentì male una mattina di fine aprile. Non c’era un perché, nemmeno una ragione specifica, un “motivo scatenante”, direbbe la giurisprudenza. Accadde e basta. Lì fra le mura dell’unica casa che sentisse veramente sua. A Providence, nella tana del suo creare, nell’ovatta del suo vivere anestetizzato. Avrebbe dovuto riordinarsi, fare la solita colazione sobria e asciutta come l’affetto delle sue zie, poi avrebbe dovuto uscire, dare una scorsa ai giornali e quindi rientrare con passo svelto verso casa. Sedersi alla solita scrivania che dava sulla finestra con sguardo sul giardino e battere sui tasti della sua “Remington”. Con tutto l’ardore di quei mesi, la foga di quell’attesa di un viaggio europeo, l’eccitazione dell’aprirsi una nuova via. Nello scrivere, nell’immaginare, nell’autogerminare mostri orrendi e situazioni oniriche. Avrebbe dovuto.
Non fu così.
Fu mentre si spazzolava le unghie con acqua e sapone. Con la solita irrazionale irritazione. In canottiera, davanti allo specchio del suo bagno, diede una prima passata veloce, quindi una seconda, portandosi poi le dita piegate sul palmo, fino al naso. Per meglio osservarle. Una minuscola macchiolina nera sull’unghia del medio nella mano destra faceva bela mostra di sé. Altre due passate non servirono a migliorare la situazione e, anzi, più Howard intensificava la profondità del suo strofinare con la piccola spazzola, più questa pareva acquistare intensità nel candore della parte esposta dell’unghia, nel rosato di quella appoggiata sulla carne.
Erano unghie magnifiche le sue, di dita affusolate, di mani lunghe e slanciate. Mani forti e belle. Nervoso, quella mattina, abbandonò l’attrezzo e con le unghie della sinistra cerco attento di far saltare quella che poteva essere un’incrostazione, chissà da cosa partorita. La sensibilità della sua sinistra non colse nessuna sporgenza, nessun grumo poroso. Quella macchia c’era, ma non come propaggine innaturale, semplicemente c’era. Si era manifestata, era cresciuta, minuscola su quell’unghia curatissima. Del dito medio, sulla mano destra.
Nervoso riprese la spazzola e ricominciò l’operazione. Daccapo. E di nuovo e di nuovo. Ma, niente.
Razionale cominciò a pensare di far saltare l’unghia con un colpo di forbice, poi giudicò troppo drastico quel progetto, quindi ripiegò sulla possibilità di grattarla con la lima. Tenendo le dita della destra piegate a palmo sotto il naso, vagò nel bagno come a cercare una soluzione, si sedette sul bordo della vasca, sconcertato, quindi apri il cassetto del mobile bianco sotto il lavabo e ne estrasse la lima. Frenetico cominciò, preciso, a grattare. Con movimenti brevi e sincopati su una minuscola superficie. E più il suo impegno di moltiplicava, più il suo grattare si faceva forte e delicato allo stesso tempo, più i suoi sensi cedevano. Di schianto. Una porta che era un portone si apriva e l’ordine dei suoi ricordi cominciava a sconvolgersi e qualcosa si muoveva dentro con l’effetto incredibile di un’immagine impossibile. Come uno scoglio enorme che si sposta sull’onda dell’alta marea, come un monte che si piega sotto la spinta di neve copiosa e ghiacciai, o fiume che devia il suo corso per la nascita e il fiorire di un albero nel letto.
Dapprima furono come fulmini a ciel sereno, lampi di luce intensa e dolorosa che illuminano un buio eterno, che spezzano e frantumano oggetti abituati alle tenebre e percuotono e sollevano polvere accumulata nei decenni.

“Howy cosa vuoi fare di me?”
“Voglio fare di te una regina”
“E quando lo sarò?”
“Io sarò il tuo re e insieme veglieremo su questo modo”

“…Veglieremo su questo mondo”. Il limare di Howard si era fatto sussurro nel procedere, come canto di gnomi minuscoli che fanno di coro un loro malessere, in un bagno bianchissimo e pieno di lampi.

“Ci sono delle cose che non ti ho detto. Vorrei parlarti ancora
Dove ti posso trovare?”

La polvere di unghia si dissolveva nell’aria e gli occhi di Howard si gonfiarono piegati, poi la battaglia fu vinta dal nero e fermò la lima, mentre l’uomo si sedeva per terra, sotto il lavabo. Come un bambino che ha rotto un giocattolo di carta.

Con un colpo secco di gomito al fegato sua zia l’aveva svegliato
“Howard fai attenzione al sermone. Non ti distrarre…” Gli aveva sussurrato. Poi con occhi severi aveva appoggiato il suo sguardo sull’altra fila di sedute e aveva capito.
“Quando saremo a casa ne parleremo Howard Phillips Lovecraft e la cosa non ti piacerà”.
Lui si era aggiustato il colletto e sistemato il cravattino. La sua pettinatura lucida con la scriminatura alla destra e il suo biondo slavato non si turbarono per quelle arcigne minacce.
Sorrise sereno e monello, lanciando un’ultima occhiata che cadde pochi metri più in là su Charlotte Ripple. Come un volo di rondine veloce nella chiesa, trovò nido in quello sguardo sorridente a lui rivolto.
“Charlotte Ripple non fa per te Howard. Sua madre si è sposata tre volte, suo padre è scappato di casa, il suo patrigno non ha buon nome, non vogliamo che tu la frequenti” La più anziana delle sue zie, lo aveva osservato aggressiva, una volta a casa, proprio davanti alla vetrata sul giardino. Quella che sarebbe diventata la visuale dal suo studio.
“Poi è troppo vecchia per te. Ha già 19 anni ed uno sguardo…Uno sguardo che non mi piace”
Howard si sorbiva il secondo sermone piegato sul piatto, con la gioia di quello sguardo fugace nel cuore, il sorriso di un adolescente che si è fatto uomo, la beata incoscienza di chi non ascolta.
“Farai come ti abbiamo detto?”
“Certamente zia Lilian. Farò come hai detto”
“Bene, ricordatelo Howard”

“Ricordi il nostro primo bacio Howy?” Lei si era alzata di scatto dal suo torace, qualche ora dopo, e l’aveva guardato un po’ stranita. I suoi occhi grandi e i capelli scompigliati con gli aghi di pino che sembravano ornarla, la rendevano ancora più bella. Providence in estate sapeva regalare delle luci magnifiche e dei bui intensi durante l’inverno. Opposti che non finivano di valorizzare il biondo cenere di Charlotte, i suoi occhi verdi che diventavano marroni in inverno, le sue efelidi sparse intorno al naso che sembravano scomparire quando faceva freddo.
“Certo che me lo ricordo, sono solo passati pochi mesi, mica un’eternità..O forse mi sbaglio…Quello non era il primo bacio con te” Aveva sorriso singhiozzando, con la testa appoggiata all’albero
“Odioso!” Lei gli aveva rifilato un manata di dorso sul fegato. Sempre quello. Stavolta lui non l’aveva sentita.
“Beh..sincero” e l’aveva trascinata giù dandogli un bacio tanto intenso che i loro corpi sembrarono davvero fondersi in un uno.
Charlotte Ripple aveva un anno più di Howard. Lui l’aveva amata da subito, da almeno un paio d’anni prima, da quando i loro sguardi si erano incrociati assenti e poi rapiti all’emporio.Lei per un cesto di prugne secche, lui per la farina. Lei già in cappellino e veletta a scimmiottare le signore di Boston, lui in braghe corte a sbucciarsi le ginocchia coi compagni. Lovecraft non ci pensò mai veramente, ma fu quella una delle ultime volte che mise i pantaloni corti.
Dallo sfiorarsi di sguardi di quel giorno, il tacito appuntamento era stato fissato. Due volte a settimana, alla stessa ora, negli stesi giorni. Lui per la farina, lei per la frutta. Lei, dolcemente sadica a ritardare qualche istante, lui irrequieto a tergiversare nell’emporio in attesa di vederla arrivare.
La prima volta che si erano toccati fu per colpa di un’arancia.
Howard aveva ricevuto l’incarico generico di comprare un po’ di frutta, l’aveva attesa, l’aveva vista comparire, aveva assecondato il suo sorriso e l’aveva osservata appoggiarsi al cesto di arance. Immediato vi si era catapultato. Le loro mani si erano toccate “involontarie”, sotto gli occhi dell’ignaro mister Buff. Quell’attimo era durato ore, giorni, nei pensieri di Howard.
Lui con le dita le aveva sfiorato il dorso, lei con il palmo le aveva cinte, dandogli il suo calore. Si erano guardati, senza bisogno di dire nulla. Come nasce e si rafforza un amore in un giovane cuore non è da esplorarsi. Ma è come impronta di anima in cemento fresco e malleabile, facile da imprimere, impossibile da cancellare negli anni. Nei rari fortunati quest’impronta resta docile e serena nell’animo, negli altri essa s’incatena al profondo e detta, poi, il ritmo di tutte le emozioni future che all’amore possono richiamarsi.
Da esplorarsi è l’amore e le sue implicazioni, come quelle che Howard conobbe mesi dopo, con altri sfiorarsi convulsi, le prime parole sussurrate e il primo incontro segreto.
E gli altri a seguire, culminati al primo bacio, sullo stesso prato, sotto la stessa pianta.

“Io ti amo Charlotte” Aveva, poi, balbettato lui quella domenica pomeriggio, dopo i due sermoni domenicali.
“Io di più” aveva rilanciato lei, sorridente in un pallore forse solo leggermente eccessivo. Lo stesso che il giovane scrittore aveva da sempre giudicato come un segreto particolare di quella bellezza quasi eterea. Incredibilmente sua.
“Allora resteremo insieme, mi troverò presto un lavoro, così potrò sposarti” Com’era lontana zia Lilian. Sembrava che al mondo non esistessero altre parole che quelle appena dette e che tutto, ma proprio tutto, ruotasse attorno a loro e fosse a loro finalizzato. Era una storia vecchia come il mondo, insomma: quella di due ragazzi che si amano con la semplicità di un cuore giovane, eppure così unica per il loro “mondo intero”.
“Io parlerò con mia madre” Gli aveva detto Charlotte “Il mio patrigno non vedrà l’ora di guardarmi andare”
“Io non avrò bisogno di parlare con nessuno. Lo farò e basta”.
“Howy cosa vuoi fare di me?” Aveva fatto, serena, la giovane donna tornando ad appoggiarsi sul suo petto, dopo un attimo di meditazione.
“Voglio fare di te una regina” Aveva detto semplicemente il ragazzo
“E quando lo sarò?” Aveva incalzato lei, come una bambina.
“Io sarò il tuo re e insieme veglieremo su questo mondo”.
Poi si era fatto silenzio. Howard aveva sentito il sussurro del respiro di Charlotte che si addormentava ed era rimasto a guardare un po’ in alto, fra le frasche di quercia, verso quel sole che si faceva nuvola, fra le nuvole che correvano veloci. L’ombra si era spostata, qualche formica era salita sulla sua mano appoggiata al prato ed un pensiero semplice, docile come emozione che era vissuta, piena e dirompente, nel momento in cui pulsava, lo aveva fatto addormentare.
Aveva pensato quanto sarebbe stato bello che quel giorno di grandi decisioni, non avesse mai fine. Non perché temesse il futuro, ma perché era certo di quella emozione che lo prendeva sana e vigorosa, era sicuro di lei, di lei si fidava e gli sembrava, ora che lo sentiva, che il sapore della vita era una bella cosa, quando veniva saggiato, esplorato.
Era quello il momento in cui l’animo di un ragazzo, diventa quello di un uomo vero; l’attimo di bellezza immensa che a un uomo parla di futuro e gli predispone il cuore ad affrontarlo, l’istante di fragilità estrema in cui gli dei della vita, devono mandarti un angelo a proteggerti. E lo devono fare, per scacciare qualsiasi corruzione, qualsiasi rintocco non organico a quella musica. Che, forte, deve partire dal cuore e, sana, deve arrivare alla mente. Intonsa, come un fluire vitale.

Howard rimase appoggiato al muro freddo sotto il lavabo. E restò così. Con le braccia aperte e abbandonate, la piccola spazzola sul ventre e la testa leggermente reclinata. Mentre il suo ricordo gli dava tregua un attimo, gli occhi si sgonfiavano impercettibili e lui aveva il tempo di darsi una logica spiegazione. Si rassegnò all’idea di essersi spinto troppo oltre, di aver troppo a lungo incatenato le sue emozioni, di averci giocato stratificandole senza senso. Una sull’altra, avendo cura che quelle più forti, le più importanti, con un gioco abile da baro di bisca, finissero regolarmente sotto quel mazzo mischiato veloce. Così che fossero le ultime a rischiare di emergere. Sempre.
“E allora perché?” Si disse. Perché adesso emergeva singhiozzante e femmineo il “…ricordo spregevole di quell’amoretto?”.
Che cosa cambiava? Dove aveva sbagliato? In cosa quel meccanismo oliato si andava inceppando?
La risposta avrebbe potuto trovarla nel viso di Sonia, nelle mani di Charlotte, fra le braccia delle donne che non aveva più amato. Perché col proprio cuore non si gioca, non si staccano spine, se non si è sicuri di non aver bisogno di quella corrente vitale che ti porta anche dolore, ma ti parla di vita da vivere nell’istante in cui la percorri e l’attraversi. Così quello che al vivere, all’emozionarti, al pulsare hai sottratto nel momento in cui non dovevi, al tuo vivere attuale ritorna. Senza un senso apparente, senza una logica materiale, se non quella di vecchi conti da chiudere. Con se stessi.
Nel momento in cui si spense il suo momento di lucidità, cominciando a singhiozzare sotto il lavabo del suo bagno, Howard lo accettò con un senso di liberazione e si abbandonò a quello che non era un semplice ricordo, ma anche l’ascoltare un ticchettio.Del metronomo nella sua vita affettiva.
Era un suono malsanamente irregolare.

Il primo giorno aveva pensato ad impegni domestici, cui la strana madre la sottoponeva giusto così: per sfogarsi di una personale condotta di vita non proprio regolare. Una saponata per la casa, in un pomeriggio di fango; la pulizia di un numero imprecisato di finestre, nelle mattine che minacciava pioggia; il giardinaggio, nelle ore più calde dei mezzodì più torridi.
Il secondo giorno, non avendo amici in comune e nemmanco la complicità involontaria di estranei, cominciò a fare un giro attorno alla sua casa, già sospettoso. Notando le persiane socchiuse e un’assenza di movimento nell’abitazione che cominciò a inquietarlo davvero.
Il terzo giorno aveva rotto un primo argine: “Charlotte non c’è” Gli aveva grugnito in faccia il patrigno, un omone sformato al ventre, con pochi capelli, una faccia glabra e con un tono che non ammetteva repliche.
Il quarto giorno di silenzio da parte di Charlotte, invece, Howard aveva rotto gli indugi e sfondato tutti gli argini in quella che sarebbe stata una delle poche volte nella sua vita. Aveva scansato il padre della ragazza all’entrata e si era poi proiettato su per le scale, fino alla camera della sua amata. Non prima di aver sbirciato in giro. Con un’aria frenetica e occhi mobili come non avrebbe mai più avuto.
“La mia piccola non c’è –gli aveva spiegato la madre, una donna azzimata e piangente – l’abbiamo fatta ricoverare l’altro ieri. E’ stata male di notte quattro giorni fa…”
“Dov’è ora?” Aveva gridato Howard, scrollandosi di dosso le braccia del patrigno che nel frattempo lo aveva raggiunto al secondo piano. La madre di Charlotte gli parlava dal fondo della camera matrimoniale, quasi a non voler essere scorta.
“L’hanno portata all’ospedale. Ma tu chi sei? Che vuoi da lei?” Il trucco eccessivo le colava ora sulle guance. Il ragazzo l’aveva guardata e ascoltata coi pugni chiusi lungo il corpo, con la luce di un’aggressività fattiva sconosciuta, inusuale, inesplorata. Non ebbe tempo di disprezzarla.
Lanciò un ultimo sguardo al flaccido padrone di casa, pronto a rifilargli una testata. Si trattenne e uscì.
Corse fino a casa, salì in camera, prese tutti libri che gli furono a tiro, buttò a terra la cassetta di ferro con i quattro spiccioli di risparmio, s’infilò una giacca blu, riprese le scale. Senza guardare in faccia le sue zie che nel frattempo avevano fatto gruppo in fondo alla rampa. Nel tentativo di fermarlo, una di queste gli fece cadere la borsa. Ne uscirono quasi tutti i libri e il giovane Phillips Lovecraft non si curò di raccoglierli.
In pochi istanti era già in fondo alla via, col suo mento sporgente e la bocca sottile, il suo incedere frenetico che lo rendeva ancora più magro, ancora più allampanato con quella borsa a tracolla.

Quando fu sulla soglia della camerata, fuori dall’orario delle visite all’ospedale di Providence, piangente con la suora che gli aveva fatto indulgente strada, Howard si avvicinò al letto della sua futura sposa. Senza chiedersi quale fosse il male bastardo che se la stava portando via, senza domandarsi se e come fosse pronto. Aveva solo 18 anni, non pensò al suo futuro, non pensò alla sua ragione, non aveva cognizione dei suoi limiti e percezione di scrivere indissolubilmente parte della sua storia affettiva in quel preciso momento. Calcò così la sua impronta definitiva, nel cemento fresco del suo destino e lo fece con l’istinto coraggioso di un uomo e l’incoscienza di ragazzo. Connubio ideale per farsi del male due volte.

Charlotte, coperta fino al mento e con i capelli distribuiti sul cuscino, si voltò piano e gli sorrise di un pallore infinito con riflessi dorati nell’incarnato. Tirò fuori una mano dalla coperta e toccò quella di Howard, mentre si sedeva.
“Non ti preoccupare Howy” Gli sussurrò con un sorriso lento
“Presto starò bene..Poi sarò tutta per te” Howard le sorrise e quindi si sforzò di non piangere ancora.
La suora gli aveva consigliato di non avere contatti fisici con lei, lui se lo dimenticò e la baciò sulla bocca.
“Resto qui con te, Charlie…Resto qui con te”.
Lei gli sorrise e si addormentò, concedendo al suo compagno di cominciare a singhiozzare silenzioso col capo chino e una mano alla fronte.

Charlotte Ripple aveva poco meno di venti anni, quando morì di epatite fulminante, pochi giorni dopo. Aveva accanto a sé il suo uomo che era poco più di un ragazzo. Il giovane biondino le era rimasto vicino, da quel momento, per tre giorni e per tre notti. Le aveva tenuto la mano, aveva parlato con lei, in modo sommesso, quasi come se amore confessasse amore. Nelle lunghe pause notturne, quindi, il giovane Lovecraft aveva divorato l’unico libro che gli era rimasto nella borsa, dopo la sua fuga dalla casa delle zie. Se lo era letto in tre fiati, una parte ogni notte, come se quella foga, quel farsi rapire potesse in qualche modo aiutare, quella che avrebbe dovuto essere l’unica donna della sua vita.
Nel via vai delle visite di giorno, nel tossire e nei tenui lamenti notturni della camerata all’ospedale di Providence, Howard si preparò nel suo modo a quel distacco definitivo. Lo fece, come in un percorso autodidattico, ispirato dalla natura della sua anima. Così profonda, così portata alla fine all’estraniarsi grazie a un’incredibile immaginazione. In quel cuore di giovane scrittore germinò così il seme dell’anestetizzarsi, dello staccare la spina, nel momento in cui il dolore si fece talmente forte da poterlo condurre fino all’autodistruzione immediata. Lui non si comprese, seduto su quella sedia di legno al fianco della sua amata che spirava, non capì cosa gli stesse succedendo, quanto d’innaturale e profondamente orrendo ci fosse in quel rendere altro da sé quel dolore immane che, questo sì lo comprese, lo avrebbe segnato. Per sempre.
Fu come istinto di sopravvivenza, quello che non gli fece versare una lacrima, quando il medico di turno la mattina del quarto giorno, certificò la morte di Charlotte.
Rimase in silenzio con le mani giunte fra le cosce, a guardare il lenzuolo che le coprì il viso, prima che se la portassero. Quindi ripose il libro nella sua borsa con un movimento lento e nel farlo si guardò le unghie nere di stanchezza e ridondante toccare.
Trasse un fazzoletto dalla tasca interna della giacca, lo inumidì con la saliva e quindi prese a strofinarsi le dita. Solo al termine di questa operazione, si alzò e se ne andò.
Mentre si allontanava nel corridoio della camerata, emerse l’unico pensiero. Era semplice, di una leggerezza assurda. Una frase desfogliata di sentimenti e passioni ed innaturalmente gravida di bisogni materiali personali: “Ci sono delle cose che non ti ho detto. Vorrei parlarti ancora. Dove ti posso trovare?”.

Quasi vent’anni dopo Howard si stese sotto un lavabo umido e si concesse il pensiero di quello che aveva perso, avesse avuto il viso dal lineamento delicato di Charlotte, o il severo tratto somatico di Sonia. Come in un cerchio che si chiudeva, un’emozione che completava il giro completo della sua vita e gli concedeva la pace di un pianto ritardato e consolatorio.
Quella mattina non ebbe animo di scrivere.