mercoledì 22 aprile 2009

L'occasione della forma 19^ - Maelstrom


Eriberto Perreira de Bassos aveva un bellissimo bastone da passeggio, con il manico affusolato d’argento, su un asta di cedro liscissimo. Non era un uomo che faceva compromessi. Che si cullava nelle parentele, era uno che amava l’idea di essersi fatto da solo. Ogni mattina, giorno dopo giorno, infilava il solito abito dimesso, ben lontano dall’essere elegante e il suo capello a falde larghe, quindi dava una controllata alla cipolla pendente dal gilet e si metteva in strada. Sempre lo stesso percorso verso la laguna di Faro. A piedi d’estate, in quelle ore d’alba che regalavano l’ultimo refrigerio; in bicicletta d’inverno. Non aveva nessun tipo di vezzo o vanità, forse l’unico era quello di guardare tutte le persone con le quali gli capitava di interagire, negli occhi, almeno un istante, durante la sua giornata. Al porticciolo della laguna arrivava dopo una mezz’ora di passeggiata spedita, salutava le due segretarie con un sorriso gentile, poggiava il cappello e quindi usciva a dare di conto. Contava le barche, le sue barche fuori per quella giornata di pesca, ma le censiva non con la cupidigia di chi vuole arricchirsi ad ogni costo, semplicemente con l’attenzione di chi voleva che le cose funzionassero al meglio. Per principio, si direbbe oggi. Delle sue sette grosse barche a vela, aveva fatto il conto che almeno cinque dovessero essere fuori, ogni giorno, fra i flutti dell’Atlantico. Di queste, sempre ragionando al peggio, almeno tre dovevano rientrare gravide di “peixe”. Fossero tonni, fossero piovre, tartarughe o squali. Di svariata natura o genere. Con questa fedele metodicità, gli affari finivano quasi sempre con l’andare bene. C’era stata, poi, la lungimiranza del fratello di Eriberto, Josè. Lui aveva scalato quasi tutti gradini della gerarchia politica dell’Algarve prima, del Portogallo poi. Le sue leggi sul commercio di pesce, avevano quindi dato la svolta all’economia della cittadina ed Eriberto, che pure spesso non l’aveva pensata come il fratello, di questo era grato. Principalmente a Dio. Così almeno due mattine a settimana, si alzava addirittura dieci minuti prima e passava da “La Fè” per ringraziarlo a suo modo: qualche spicciolo nella cassetta delle offerte, un velocissimo segno della croce e un inchino. Tutto qui.
Nel tardo pomeriggio, poi, Eriberto tornava a casa sullo stesso percorso. Sostava alla taverna dei “Dois bois”, beveva veloce e tornava a casa. Lì trovava le sue due figlie ad aspettarlo. La più grande Rosa che aveva sedici anni, la più piccola Lita che ne aveva 12. Sua moglie Matilda non c’era più dal giorno che quest’ultima era venuta alla luce. Un piccolo sgorbietto nero nero, con due fanali al posto degli occhi. A loro pensava una governante gobba ed efficientissima che già era stata al servizio, qualcuno diceva in “tutti sensi”, del fratello Josè. Che aveva 23 anni più di Eriberto ed era morto da cinque. A Faro avevano dedicato un monumento a Josè Bento Perreira de Bassos, giusto nella piazza centrale. Era quello uno dei riferimenti di Eriberto, nell’incedere mattutino verso il lavoro.
Era una vita frugale, nonostante la considerevole disponibilità economica, una vita magari avara di piaceri per Eriberto, ma piena di piccole soddisfazioni. Il dare lavoro a oltre cinquanta persone era una di quelle, il veder crescere le proprie figlie, nell’assenza della madre, ma comunque secondo i suoi criteri morali ne era un’altra. Lui aveva fatto tutto da solo, ormai ben più di vent’anni prima. Un prestito dalla banca, un primo peschereccio a vela sul quale lui stesso aveva sudato e quindi un secondo e un terzo nei primi anni. Fino ad arrivare a una vera e propria flottiglia, nei lustri successivi.
Qualche volta quindi, qualche rara volta che non si andava a scuola, le figlie del facoltoso Eriberto seguivano il loro “papai” fino alla laguna. La più grande e volitiva Rosa a dare una mano alle segretarie, la più piccola Lita a giocare sui pontili, facendo ben attenzione a non cadere nell’acqua melmosa. A piedi nudi, con le gambe penzoloni verso lo specchio luccicante, Lita fantasticava di viaggi e condottieri, di velieri gonfi di vento e di prodi pirati della filibusta. Proprio come nei racconti di Donna Madeira, la loro governante che le teneva buone il pomeriggio con le immaginarie storie di queste avventure, in attesa del ritorno di Eriberto. Un tentativo che se su Lita aveva sempre presa, su Rosa non sortiva più alcun effetto da un bel po’. A sedici anni, in un corpo slanciato e ben fatto, già bruciava il fuoco della passione più sana e naturale, un fuoco che era ben lungi dallo spegnersi fra le braccia muscolose di un suo coetaneo, il sedicenne mozzo di uno dei pescherecci della flotta Perreira de Bassos.
Lita aveva scoperto questo segretissimo amore della sorella quasi per caso, fra le canne ai margini della laguna, in un pomeriggio di bonaccia in piena estate. Mentre caracollava, sognando di pirati e cappelli piumati, aveva sentito l’ansimare della sorella e, spostando un gruppo di canne più alte di lei, l’aveva vista cinta dalle braccia di quell’adolescente fin troppo uomo, che la copriva con il suo corpo.
Aveva spiato capendo ben poco di quel movimento convulso, appiattita come una piccola e innocua belva nella savana. Aveva visto il corpo agile del ragazzo ondeggiare convulso fra le gambe divaricate della sorella secondo un ritmo coincidente che aveva cominciato a turbarla senza un perché. Infine fra i gemiti dei due adolescenti, aveva osservato il volto del giovane mozzo. I suoi occhi verdi come l’acqua della laguna, il suo lineamento perfetto nell’abbronzatura della sua pelle liscissima. Lo aveva visto, lo aveva studiato come essere diverso da quello che aveva conosciuto prima, confuso nel vociare dei pescatori sui legni di suo padre, quasi tutti più anziani di lui. Questa volta il suo sguardo vi si era posato come occhio che cade su frutto che lento matura e acquista il colore della vita, che fluisce e zampilla denso, come latte vitale. Ne aveva fatto il suo corpo, ne aveva fatto il suo viso, nell’immaginario dei racconti di donna Madeira e aveva finito per vederlo ornato di mille orecchini virili e pendenti con copricapo di pirata e coltello fra i denti, all’assalto dell’ultimo galeone con l’effige di Navarra.
Lo vide rivestirsi veloce, osservò il suo viso sudato e lo sguardo felice della sorella, mentre una nuvola sembrò voler regalare a quell’immagine di candore ansimante, un rifolo di frescura temporanea. Giusto per il tempo di un ultimo bacio in piedi, prima dei saluti e dell’ultimo abbraccio. Fu quello il giorno che Lita, la figlia secondogenita di padron Eriberto, conobbe di sponda l’amor carnale, quello che aveva appreso esistere nei sussurri cenciosi dei paesani al passaggio della sua governante e dal sospirare notturno della sorella in camicia da notte.
Fu una scoperta lieve e leggera come un profumo lontano che ti porta il vento. Effluvio dinamico di coscienza di sé che viene presa e custodita per il futuro. Quel viso maschile entrò nel suo giovane ventre di ragazzina, disponendosi allungato nella zona fra pancia e cuore dove si dispone, atteso e spesso mal custodito, un amore di giovinetta inesperta.
Un viso che, da quel giorno, le tenne compagnia nelle notti più calde di un’estate lunghissima, nel torrido e assolato giocare fra le vie di Faro, nel luccicante bramare dei pontili in laguna. Una viso e un corpo che le entrarono dentro, scoprendo anfratti inesplorati della sua giovanissima anima.
Così la piccola Lita che stentava a farsi donna nel fisico, prese a seguire il padre sempre più spesso, nei pomeriggi estivi senza scuola, nei giorni convulsi della pesca più fruttuosa, nelle ore più lente dell’attesa del ritorno di velieri e pesce.
Eriberto fu piacevolmente sorpreso dall’interesse della sveglia secondogenita per quel lavoro così maschile e già ne fantasticava per lei un avvenire di ricca imprenditrice, perché della prima figlia, troppo avvezza a pizzi e merletti, non poteva farne che una donna da dare in marito.
Lita arrivava col padre di buon ora, sperando che al vascello del mozzo toccasse quel giorno una sosta e quand’anche non capitava, si schierava pronta sul pontile ad attenderne il ritorno. Lo vedeva, con gli occhi della sua immaginazione, agile e proporzionato muoversi sui verricelli, dar di comando ai marinai più anziani, comandare, disporre e gestire come unico dio di quel navigare proficuo. Fantasie di adolescenti ai primi sobbalzi del proprio cuore.
Lo scopriva di giorno in giorno più bello in quelle mattine di ritorno, fra l’olezzo di pesce fresco e la forza bruta dei marinai; lo osservava elastico e fortissimo nello scaricare casse stracolme di piccoli tonni, o di squali e verdesche, lo vedeva ansimare di un altro ritmo rispetto al canneto, spiandone ogni lineamento da dio del mare.
Aveva così preso a ripeterne il suo nome. Nel cuore e nella mente, a sillabarlo con la voce, come fosse dono di dio, nei momenti di solitudine assoluta.
L’emozione più grande fu per lei il giorno che l’improvvido mozzo, saltando giù dal ponte del peschereccio, sempre lo stesso, camminò verso di lei, le sorrise riconoscendo la sua attenzione e, proprio come fa un adulto con un bimbo, con lo stesso cuore, la stessa generosità, le mise in mano sorridente e madido tre minuscoli paguri rosati. Lita chiuse il pugno, arrossita e, senza parole, scappò via a osservare il suo dono. Tre piccoli paguri dal ruvido guscio che si agitavano convulsi alla ricerca dell’acqua in quel palmo di bambina.
Fu il dono più bello che avesse mai ricevuto, fra la carnale opulenza del padre nelle ricorrenze più importanti, fra i circostanziati regali degli amici di famiglia. Quei notabili di provincia, alle cui orecchie già arrivavano i pruriginosi suoni di tresche nascoste.
Capitava, infatti, con regolarità, che Rosa e il giovane marinaio s’incontrassero sempre meno attenti alle forme, ai momenti e ai luoghi. Lontani dagli occhi disinteressati di Lita, ma così vicini ai posti abituali dove servette e governanti di varia natura e disposizione verso l’altro sesso, s’incontravano coi loro amanti e fidanzati. E le voci che corrono, quelle che turbano la disposizione dell’animo umano e che ti avvolgono facendoti dimenticare di un personale passato analogo, viaggiano come è noto con tale decisione, quando sono malsane, che arrivano sempre dove non devono arrivare. Ad orecchie di “amici” che le sedimentano beandosi di un torbido che non c’è, ci giocano coi sussurri nelle occasioni di convivio più ipocrite e quindi le girano ai diretti interessati. Ma solo quando anche il giocarci ha perso ogni interesse.
La voce di quell’amore, sporcato da bocca a bocca, da sussurro a sussurro, arrivò presto a padron Eriberto, uomo pragmatico ma irruente, intelligente ma viscerale.
Quella mattina di fine estate Eriberto Perreira de Bassos si alzò mezz’ora prima, dopo aver disposto la consegna per manutenzione di uno dei suoi pescherecci, sin dal giorno prima. Uscì nel solito modo, camminò fino alla laguna, salutò le segretarie, contò i pescherecci e poi si dileguò. Aspettò per ore fra le canne con il suo bastone da passeggio dal manico d’argento. E infine vide.
Anche se più incredibile e beffardo fu quello che non vide, sotto il sole dell’Algarve, in una minuscola radura, dove un pino marittimo regalava una discreta ombra. Non vide due adolescenti che si amavano, che si riempivano di baci profondi e lunghi, si stringevano di abbracci infiniti in sguardi densi come miele. Non poté vedere due ragazzini inesperti che si regalavano i loro corpi, come unico dono veramente importante in un’età che la non consapevolezza può portare a fughe dolorose a orgogli beffardi, mentre nei due si concretizzava in un amore fisico che di sporco non aveva nemmeno l’erba fra i capelli di lei o le gocce di sudore che scendevano copiose sulla schiena di lui.
Padron Eriberto, accecato dai sussurri, reso pazzo da un errato senso di moralità, portato alla violenza dalla gelosia di padre impreparato a tutto quello, vide invece il suo mozzo che abusava della figlia coetanea. Vide tradimento della sua morale, vide rapimento vigliacco della sua bambina più grande, così moralmente inconsapevole. Vide tutto il nero possibile, quando quel colore aveva fagocitato già tutte le altre sfumature cromatiche che dall’amore partono per arrivare fino all’odio. Vide quello che le sue pulsioni insane gli consentirono di vedere.
Agì, quindi, come uomo tradito e offeso nei suoi affetti più cari.
Picchiò con la forza del mulo che scalcia, col cedro del suo bastone. Sulla schiena. Una, due, tre volte. Alzò il ragazzo di peso per i capelli, incurante delle grida e dei pianti della figlia che gli si aggrappava agli avambracci.
Trascinò il giovane, prima a spinte, poi a calci fino alla piazza centrale di Faro. Qui mise in ginocchio il marinaio sanguinante al viso, alla schiena e alle ginocchia, quindi ruppe il bastone, picchiando un’ultima volta su quelle terga martoriate. Non sentì le lacrime del suo mozzo che regrediva bambino, che scivolava giovinetto per aver osato da uomo vero. Il suo chiedere perdono strozzato dall’ultima bastonata si perse nel nugolo di persone che ben presto avevano fatto capannello, mentre nessuno osava fermare la mano di un padre che continuava a percuotere un genero mancato.
Nessuno osò, perché tutti sapevano. Sapevano di quell’offesa all’onore di un uomo che dava da mangiare a famiglie intere, un uomo retto, giusto. Che non faceva compromessi. Che non si beava nelle proprie parentele altolocate, ma che sotto al monumento ad esse dedicato, in un impeto di quella rabbia tipica degli uomini miti, aveva istintivamente pensato di lavare quella vergogna, quell’insulto alla propria opera di padre senza una moglie, di uomo fiero che guardava dritto negli occhi. Tutti sapevano, sì. Ma nessuno aveva saputo o voluto raccontare di quell’amore, inevitabilmente diventato onta, per un uomo che non poteva comprendere.
L’ultimo calcio Eriberto Perreira de Bassos lo sferrò ansimante al fianco del giovinastro bocconi. Poi se ne andò raccogliendo il suo cappello a falde larghe dalla polvere e pulendosi il viso madido, con l’avambraccio indolenzito dal tanto picchiare. La gente cominciò a fluire, mentre il ragazzo restava steso, piangente. Come un bambino. Come quello che era.
Come un essere dalle pulsioni di uomo, dal pensare di giovane, dall'agitarsi di fanciullo. Incapace di reagire livido, ma in grado di possedere ignaro. Possedere una donna, che era troppo “figlia” per essere tale.

Restava, all’angolo che la sua casa faceva con uno dei tanti vicoli che confluiva nella piazza, una piccola figura tremante nel capo, con gli occhi troppo grandi e i piccoli pugni serrati. Una bella bambina di dodici anni, ormai incapace davanti a un tale scempio, di sognare velieri, pirati e dame innamorate. Incapace di vedere in quell’essere ritornato suo pari, l’eroe dei suoi sogni, il filibustiere dei suoi arrembaggi di giovinetta. Incapace anche di ripetere piano il suo nome: “Amancio”, abbellito in quel vezzeggiativo che da un amore fanciullesco emergeva: “A-man-ci-to”.
Restò poi sola a osservare il suo eroe prostrato, ingiustamente umiliato, mortificato nell’anima, prima che nel corpo. Non ci sarebbero più stati per lei sogni di “cappa e spada”, viaggi fantastici dal volto fiero e artatamente invecchiato di Amancio. Lui una volta era stato pirata senza paura, capitano senza macchia, condottiero senza dubbi. Ora piangeva da suo pari, con il volto nello sterrato e la schiena livida. Sarebbero rimasti per Lita, secondogenita di un uomo troppo fiero nelle sue certezze, solo infatuazioni e amoretti insani. Alla ricerca di un eroe nel volto dei suoi primi baci, di un pirata nei primi amplessi segreti qualche anno dopo, di un condottiero nei suoi due mariti.
Nessun dubbio sulla natura mediocre dell’uomo in quanto tale, dell’amante in quanto oggetto di desiderio, dell’amore “vero” in quanto pulsione controllabile. Avesse il volto affascinante del suo primo marito basco, oppure la greve prestanza dell’ultimo. Il capitano di lungo corso andaluso che le avrebbe dato un terzo cognome, Balaidos.
Quel giorno di fine estate nell’Algarve, fra gli sguardi silenziosi dei paesani, sotto il monumento allo zio, la piccola Estrela Perreira de Bassos si preparò a diventare una donna con pulsioni deviate. Capace di possedere mille uomini, incapace di amarne anche uno solo, senza doverne immaginare il volto nella polvere, implorante perdono in mezzo a lacrime da bambino. Non ci sarebbe più stata figura maschile in grado di elevarne lo spirito, di farla sentire compagna di un eroe, femmina di un condottiero. La sua eredità, quella che si concretizzò negli anni a venire alla morte del padre, oltre al cospicuo capitale diviso con la sorella e a una libertà malsana, fu quell’incapacità di vedere, di accettare un compagno come “eroe” di quel romanzo a tinte forti che era diventata la sua vita.
Ci sarebbe sempre stato un bastone volteggiante dentro di lei, che cala fischiando sulle terga di ogni potenziale amore. Come sibilo di legno sottile, che fende velocissimo l’aria, che diventa fischio e non ti permette alcuna pace. Alcun abbandono sentimentale che portasse all’amore vero.

Quando al “Forat Vermell” quella notte d’aprile, Estrela Balaidos aveva poggiato lo sguardo su Esteban Labruna, prima ancora che questi gettasse il suo occhio depravato oltre il muro di mattoni rossi, un fremito le era salito dalle gambe, passando per le cosce tornite. Il lineamento del giovane architetto, la sua prestanza longilinea, le sue movenze da eroe di cartone, il suo atteggiarsi da condottiero del nulla, l’avevano colpita a tal punto da desiderarlo subito, esplicitando quella passione a termine in un nome che non era scelto a caso e che le usciva da dentro, partendo da una somiglianza di attitudini e lineamenti che le annunciavano al contempo un epilogo di polverose nerbate. Amancito. “A-man-ci-to”.
Un nome che era un conscio beffarsi di lui, del suo essere; e un amaro constatare la propria incapacità di accettare l’amore per quello che è. Un sogno di eroi, condottieri e pirati, non importa della realtà. Proprio non importa.

Esteban Labruna stava, ignaro. Come un bambino che gioca in mezzo alla strada, incurante delle automobili che sfrecciano, acquattato sul suo giocattolo. Invisibile, all’occhio del guidatore, all’amor proprio, accentando di chiamarsi “Amancito”, subendo questo bizzarro gioco di puledra indomabile, distratto dal suo maestro. Fragile, perché appoggiato alla sua carnefice, come preda al predatore. Eppure sereno, come se il suo sentire sempre meno greve e più articolato, come un fiore che sboccia, gli garantisse quella fiducia nella donna che ormai da tempo aveva cominciato ad amare. Per la prima volta nella sua vita.
Il suo ragionare ed ammettere, non aveva rami che potessero allungarsi su Estrela, l’oggetto del suo amore, aveva invece radici profonde che scendevano verso il basso, alla ricerca ingenua della natura stessa del suo sentimento. Del perché il suo giovane cuore ora pulsasse in questo modo strano e forte, del perché fra le tante donne che aveva posseduto proprio lei, che di tutte era la più ruvida, lo avesse preso per mano sostenendolo in quella discesa verso il proprio cuore.
Era la domanda che si fanno tutti gli uomini quando amano davvero per la prima volta e più questo sentimento ti tocca in età matura, più le domande e le mancate risposte, suonano come insufficienti, ma impetuose ed esondanti.
La risposta che si diede stava nelle rinunce. In tutte quelle volte che il suo cuore si era fermato sulla soglia di una seconda, una terza uscita galante; sull’uscio di porte spalancate, sull’ultima femminea sillaba di una parola semplice come “ti amo”, sulla paura che da sempre aveva avuto. Di non esser più padrone di se stesso. Del suo corpo flessibile, della sua vita brillante e dissoluta che preferiva far accartocciare su bisogni tanto terreni da renderlo inaffidabile per ogni nobile sentimento.
Così dal momento in cui si era votato alla protezione incondizionata del suo padrone, dall’istante in cui questo egoismo tremebondo aveva cominciato a incrinarsi, le porte delle sue percezioni si erano spalancate ed i bastoni del suo cuore avevano cominciato a pulsare. Di amicizia infinita verso Don Gaudì, di odio livido verso una croce argentea pendente, di amore verso Estrela, sulla cui immagine le vette del suo sentire toccavano ora le nuvole di nuove speranze.
Trattasi di emozioni uniche votate a vortici impetuosi, che allungano i raggi delle loro onde così lontano nel tempo, trovando il loro "occhio" definitivo in ciò che viviamo ora. E' davvero come uno splendido "maelstrom" al contrario, dove la pace e la felicità si trovano solo nel viluppo di flutti circolari e trascinanti, quando il mare calmo intorno ti parla solo di sofferenza, mediocrità e paura. Paura di sentire. Paura di vivere.
Trattasi di emozioni che sarebbero nelle corde di ciascuno, se ciascuno avesse la forza di affrontare un percorso di tali privazioni e di coraggio, solo apparentemente senza senso. Perché solo chi si è lungamente privato, può abbandonarsi così consapevolmente alla gioia del bramare, dell'ottenere e del trovare un senso alle proprie rinunce.

Il senso alle rinunce di Estrela, lo dava quel ragazzo che le dormiva affianco. Un Amancito che sapeva rialzarsi mentre era bastonato, che aveva saputo reagire ai propri errori da giovinetto e diventare uomo, ora che il destino glielo aveva chiesto, fornendogli la motivazione. Che sapeva incassare i colpi del suo bastone sibilante e che stravolgeva le inaridite certezze della sua deviata femminilità.
Il senso alle rinunce di Esteban era invece nascosto in quella forza giovane e pulita che ora lo pervadeva e che gli sembrava in grado, nel cuore di quell’ennesima notte di amore e passione, di progettare salvezze insperate per il genio che il destino gli aveva affidato, e protezioni per quell’amore che davvero non si era mai atteso di poter vivere. Un amore travolgente, vissuto con un cuore giovane che non si era mai speso prima.

Due corpi in quelle notti si univano, ed erano due corpi con un anima sola, troppo lungamente divisa.