mercoledì 4 marzo 2009

L'occasione della forma 9^ - Indefatigable


L’aria si faceva malsana a una certa ora. Le stanzone di terza classe diventavano, nel chiaroscuro delle poche candele private, come un teatro delle ombre. Dove le sagome di abitanti delle più svariate origini sembravano giocare, dormienti, con quei flebili raggi di luce. Un magrebino tossiva, un basco si voltava nel letto cigolante, un fiammingo farfugliava qualcosa nella sua lingua incomprensibile. C’era il gruppo dei francesi in cerca di fortuna, dei pochi nordafricani che avevano potuto guadagnarsi il viaggio della speranza, dei valloni in cerca di miglior clima, degli italiani in fuga dalla dittatura. Barbuti pirenaici intagliavano il legno anche la notte, dando forma a sgradevoli statuette. Gli olandesi sembravano invece i più ben disposti nei confronti del prossimo.
Una faccia tante facce. Che Howard non amava, in quanto monade a condividere la stessa aria irrespirabile nelle ore notturne, a spartire gli stessi odori, che diventavano fetore nella notte ondeggiante.
Così in quella traversata, aveva preso l’abitudine di dormire di giorno, restando sveglio la notte.
Ben presto aveva capito che se voleva rendere produttivo quel ritorno ozioso, avrebbe dovuto cominciare a scrivere subito, avrebbe dovuto cercare una strada ispirativa da concretizzare in un racconto. Lungo o corto che potesse essere.
Terminato il suo girovagare europeo, il suo estasiarsi, era arrivato il momento di produrre.
Lo spunto gli era arrivato a grazie a Rune, la seconda sera sul transatlantico. Appoggiato alla balaustra di terza classe, fermo in contemplazione dell’oceano, aveva visto una decina di metri più in là, nella sua identica posizione un tipo curioso, con una pesante giacca da marinaio e un berretto di lana scura con un pon pon penzolante. Un uomo dai colori ramati e dalle spalle enormi, goffamente prone verso l’Atlantico. Bastò avvicinarsi e rivolgergli una parola per ottenerne con una certa giovialità, un piccolo resoconto.

Rune Andre era un norvegese di Trondheim e aveva speso almeno venti dei suoi poco più di trent’anni, su navi di vario tipo. Da nord a sud, da est a ovest e ritorni. Parlava anche per questo un ottimo inglese e per Howard fu davvero un sollievo, dopo più di un mese, tornare a parlare nella sua lingua. E capire. Ed essere capito nell’immediato.
Anche Rune non amava le moltitudini.Aveva cominciato a odiarle una decina di anni prima, durante la grande guerra che lo aveva sorpreso imbarcato su un grosso peschereccio inglese. Sebbene avesse avuto la possibilità di tornare in una Norvegia neutrale, aveva deciso di restare per condividere il destino dei suoi compagni di navigazione inglesi. E per la paga. Tutti precettati in base alle leggi di sua maestà, a restare sulla propria barca che entrava “ipso facto” a far parte della marina militare.
La guerra per mesi era scivolata via tranquilla sulle sue terga gigantesche, poi una sera il peschereccio, riassettato come nave soccorso, fu chiamato a nord ovest delle coste danesi. Il 31 maggio 1916 Rune e gli altri venticinque membri dell’equipaggio furono testimoni impotenti dell’affondamento dell’incrociatore da battaglia “Indefatigable”. Due proiettili avevano colpito l’armeria, facendola inarcare dal basso, poi altri proiettili tedeschi avevano centrato la torre principale, cogliendo in pieno l’altro magazzino delle munizioni.
“Signore mio – disse ad Howard con un tono sommesso che non ammetteva repliche – fu come vedere una città intera che si inabissava in pochi secondi. Fra le fiamme e quei poveri ragazzi che si accalcavano uno sull’altro come topi in un cesto. Come un intero popolo che viene tirato giù dai tentacoli fumosi e fiammeggianti del Kraken. Uno spettacolo che non dimenticherò mai.
Tutte quelle persone…Sapemmo solo in seguito che su oltre mille marinai e ufficiali si salvarono in due.
Noi non potemmo avvicinarci che qualche giorno dopo, mentre le acque ribollivano ancora dell’aria emersa dalle stive. Raccogliemmo 237 corpi, gli altri se li portò il Kraken…”
Il Kraken, la stessa figura di mitologia onirica che da secoli popolava gli incubi dei marinai, che univa la loro immaginazione in una identica forma. Quella tentacolare di piovra enorme e famelica in attesa, dormiente, nelle profondità oscure e inesplorate degli abissi.
Howard che pure conosceva questo mostro immaginario, orrida creatura che aveva fatto dei racconti marinareschi la sua personale via di comunicazione, provo un’emozione in più nel sentir definire avvenimento così reale, l’affondare di nave da guerra, come di barca tratta nelle profondità degli abissi dal mostro immaginario.
“Il Kraken non esiste, signore mio, io almeno non l’ho mai visto – rispose a domanda, Rune – . Io credo: è solo il male irrazionale che si manifesta dalle acque e che in esse prende forma. Io la penso così.
Quella sera nel mare dello Jutland quella bestia immonda che ha in sé tutto l’orrore delle miserie e della cattiveria umana, si portò l’Indefatigable e tutto il suo carico di umane passioni. Vorrei tanto che il Kraken fosse reale e avesse carne da trafiggere con la mia fiocina, tentacoli da mozzare con l’ascia”.

Il raccontò di Rune Andre fu la scintilla creativa dell’Howard imbarcato per il ritorno in America. Quella notte, salutato con il calore della riconoscenza quell’imprevisto compagno di viaggio, si ritagliò uno spazio traballante nel sottoscala di una delle rampe per la seconda classe. Alla luce di una candela, immaginò.
Immaginò il suo Kraken, mentre la sua mano correva veloce nello scrivere, i suoi occhi rattrappivano nella luce insufficiente e la sua mente viaggiava, ignorando il freddo atlantico. Una pagina, due pagine, tante pagine.
Pensò a Venezia e raccontò del richiamo della bestia dalla città sprofondata di R'lyeh, del suo agghiacciante attendere in fondo all’oceano. Ritornò a Genova e descrisse la sua progenie nefasta e nauseabonda. La sua schiera di adepti antropomorfi.
Scrisse dei suoi poteri magici che la rendevano padrona delle menti umane. “Soggiornò” di nuovo nel Polesine e parlò della palude melmosa dalla quale aveva avuto origine, che collocò in Missouri. Gettò le basi per decine di altri racconti che sul mito dell’animale tentacolare si sarebbero appoggiati, come castelli sul colle.
Scelse il nome Cthulhu. Come un verso, che è tanti versi. Come la summa ipotetica di tutti gli idiomi su quella nave che era partita da Le Havre. Un nome solo, che avesse in sé il seme di tante razze e tante culture diverse. Un nome che incutesse timore. Il suo timore, in fondo: quello di essere fagocitato dalla massa, inglobato, appiattito nelle schiere delle moltitudini schiave nella mente.
Creò il suo mito.
In una traversata che avrebbe sperato breve e riscaldata e che riscoprì troppo breve e ben poco accogliente negli spazi di fortuna notturni che si scelse per scrivere.

A Coney Island rivide Sonia. La sua Sonia. Lento le sfiorò il viso con la mano, ottenendone in cambio un sorriso. Ascoltò le sue scarne parole di benvenuto e lesse nel suo abbozzo di sorriso che le cose non erano cambiate. Il suo incarnato ormai sfiorito di ucraìna gli parlava di quella passione che li aveva legati anni prima, dei loro ambiziosi progetti di scrittura combinata, del suo cercare una madre, prima che una sposa, di quell’idillio di anime prima, troppo prima, che di talamo.
“A casa delle tue zie è arrivato un vaglia – gli disse, invisibilmente felice per lui – 72 dollari e pochi centesimi”
Per Howard fu l’ultima volta che quella bocca carnosa disse qualcosa di entusiasmante.
Capì subito ciò che di bello era successo che quel denaro spiegava molto di più di qualsiasi frase o parola. Comprese chi gli mandava i soldi, prima che la moglie potesse dire “C’è scritto: Parigi, Ufficio Postale VI° Arondissement, Rue Montaigne”.
Fu come per l’imputato innocente, quando la corte lo riconosce. Fu un attimo. Prima che si rendesse conto nel silenzio di Sonia che quei 72 dollari volevano dire di più. Molto di più.
“Domani devo andare a Providence” Si disse ad alta voce
“Sapevo che saresti ripartito” Aggiunse la moglie, come se l’affermazione fosse rivolta a lei.
Sul molo, la confusione, il vociare sembravano lontani. Come ovattati.
“Come mi trovi” Le chiese come per cambiare discorso.
“Ti trovo bene. Sei dimagrito, ma hai acquistato colore in viso”
“Ho conosciuto tante persone…Una in particolare. Un uomo straordinario. Te ne scriverò”
Sonia lo guardò brevemente, avrebbe voluto dargli uno schiaffo per tutto.
Per quel matrimonio che si spegneva nel silenzio, per quelle promesse reciproche mai mantenute, per quel talento incredibile che non conosceva vincoli e briglie. Tantomeno quelle che avrebbe voluto mettergli lei.
Avrebbe voluto picchiarlo perché lei era lì. Nella sua slava bellezza, corvina e sfiorita. Ma lui le avrebbe scritto.
Howard non si accorse di niente, già preso dai suoi progetti. Nemmeno quando Sonia gli sussurrò: “Nei prossimi giorni partirò anch’io. Mi trasferisco a Cleveland”.
Howard invece era già a Providence. Con la testa e con il cuore. Si disse che quei soldi del maestro sarebbero certamente stati spiegati da una lettera e che nella lettera poteva esserci un sogno che si avvera. Un sogno bello. Di quelli rari, che uno fa fatica anche a confessare a se stesso.

Una settimana dopo, mentre era nello studio a casa delle sue zie, immerso nella correzione del suo “The call of Cthulhu”, vide dalla finestra il lento postino che deponeva qualcosa nella buca delle lettere.
Corse fuori, salutò il vecchio Thomas e prese in mano la busta.
In pantofole, sul vialetto soleggiato, lesse quanto gli scriveva Antoni Gaudì. Lo lesse con il fervore adolescenziale e l’ansia di un innamorato che legge la lettera della sua amata, come chi ha in mano una risposta positiva a una lunga attesa.
Si disse a sera, ritrovata la calma dopo l’emozione, che prima di partire per la Spagna, ancor prima di organizzarsi il viaggio comunicandone le coordinate a Gaudì, avrebbe dovuto completare il suo racconto e non solo.
Avrebbe dovuto tornare a New York dal suo traduttore e chiedergli altri servigi. A questo sarebbero serviti parte dei 72 dollari del maestro e gli sembrò cosa ben strana che l’architetto avesse previsto. Sia il suo dissesto finanziario, sia la sua esigenza di farsi tradurre altro. Sentì, per l’ennesima volta in quelle ore, che Gaudì lo aveva ascoltato profondamente e non solo. Aveva letto in lui molte più cose di quelle che Howard stesso, avesse potuto raccontargli in quella breve passeggiata fino all’albergo.
Si disse, con una punta di compiacimento, che tutto questo capire non era un caso, ma il frutto semplice e immediato dell’intelligenza di un uomo che era sempre, perennemente, un passo avanti agli altri. Si sentì onorato di aver suscitato l’interesse di un tale personaggio, prima di tornare al motivo del suo incontro parigino con Gaudì.
Howard rilesse più volte la lettera di Antoni e colse il senso più profondo della sua scelta di avocarlo a sé. Non fu per le analogie fra la sua descrizione e l’inquietante splendore di Casa Milà, non fu per la sua “parola d’onore” e nemmeno per il suo talento, che pure Antoni aveva tacitamente riconosciuto fra le righe e nemmanco per quei “gufi” sui tetti di Milà.
Fu per il credere che un plagio della casualità potesse esistere. “Forse Antoni – ammise Lovecraft sotto il bersò delle sue zie – è stato egli stesso vittima di episodio così. Forse conosce la mia frustrazione. Forse ne è, o ne è stato egli stesso vittima…”.
Riguardo ai progetti che “l’architetto di Dio” potesse avere per lui, alla collaborazione che gli sarebbe stata richiesta, Howard ne intuiva a spanne la logistica, ma davvero non ne conosceva l’oggetto. Sapeva che gli sarebbe stato chiesto di scrivere, di descrivere, di immaginare, di vaneggiare forse. Ma non sapeva “cosa” o “per cosa”.
Di Antoni Gaudì conosceva Casa Milà, la “sua” casa, ma non conosceva altro delle sue opere passate e presenti. Scoprì, intimamente, che quell’ignoranza era stata il frutto di una scelta precisa, come un rito scaramantico, inevitabile per chi sogna di poter agire e concepire insieme a una tale personalità, partendo a sua volta da una mente votata al sogno, al piegare l’immaginazione.
Sapeva che i canoni di Antoni erano ispirati a Dio e a lui indirizzati.
Ma non sapeva quanto, questa dedizione, si fosse spinta verso ardite dimensioni.