mercoledì 1 aprile 2009

L'occasione della forma 16^ - Il dono di Fierro


Howard non era un osservatore normale. Era un uomo che guardava e, per istinto, indole o genio, lasciava sedimentare, depositare. Dentro di sé, come cumulo di percezioni che, lasciate una porta aperta, trovavano casa in una parte del suo meditare. Ritratte poi alla ragione, sotto la spinta del ricordo. Era quella la fase in cui la sua testa effettuava quel passaggio in più, modificando il suo antico guardare, il suo ricordo, in nuova realtà da riportare in forma fantastica nei suoi scritti. Era uno dei suoi doni, la sua luce accesa nel buio di quell’apparente distrazione, utile a mascherare questo sedimentarsi. Interrogato sul posto, avrebbe potuto mostrarsi incredulo di quanto corta fosse la propria memoria, riguardo a ciò che, poco prima, lo aveva visto agente, piuttosto che testimone, salvo poi scoprirsi acuto e lucidissimo nel riportare a galla le stesse sensazioni e immagini. Ma secondo i suoi tempi, in genuflessa posa rispetto alla sua vocazione di scrittore.
Era quella una capacità esclusiva. Quella di poter aprire le porte della sua immaginazione e accoppiarle al suo sentire, al suo vedere, al suo percepire ormai passati. Ciò che ne scaturiva erano i tratti onirici e mostruosi dei suoi scritti. Così alti nella spinta immaginativa, così reali perché emersi da questo curioso cammino, questo abituale processo, dei suoi sensi.
Tante, troppe volte, questo iter creativo era utile anche a scacciare brutti pensieri attuali, a staccare le spine, le sue spine. Quelle che non gli avrebbero permesso di mettere su carta le sue emozioni autogerminative. Nate dentro di sé e riportate su carta, senza filtri, ne distrazioni sensoriali legate al momento.
Poteva ricevere un delusione professionale riguardo al suo scrivere, e tante negli anni ne aveva ricevute, e viverle come altro da sé, continuando subito dopo a scrivere e traendo da questo sedimentare passato ed al suo macerare altre emozioni. Diverse da quelle immanenti, ma utili a farlo sopravvivere. Howard non viveva sull’emozione del momento, ma su quella passata, sedimentata, sterilizzata, richiamata alla mente, quasi a piacere. In fuga dalla realtà percettiva, all’inseguimento immobile del vissuto.
Sul treno che lo riportava a Providence fu così. Staccò la spina della percezione attuale che gli avrebbe parlato di Sonia, dei propri limiti, della propria inadeguatezza e di quel sentimento che chissà cos’era, ma all’inquietudine lo vedeva muoversi e ne fece il solito “altro da sé”, mentre con un processo abituale sedimentava quel ricordo, quel dolore pungente, e ne traeva altri. Diversi. Più morbidi e per questo più utili al suo scrivere del momento. Con la freddezza di un automa, il gelo interiore di chi non vuol vivere la sua vita, mentre è vissuta.

Il capitano aveva preso dalla tasca interna della sua divisa color kaki un cigarillo lungo e affusolato. Poi, davanti alla grande finestra, dopo averlo fatto roteare sulle dita della destra con l’abilità di un giocoliere, se lo era portato alle labbra. Aveva abbassato lo sguardo di sottecchi e, senza muovere la vista di un centimetro, aveva accolto la scarica.
Le sue palpebre avevano vibrato impercettibili quindi, con la sinistra, aveva strofinato il fiammifero sulla cintura e con due sbuffi indifferenti, il tabacco aveva preso fuoco. Il suo sguardo era rimasto fisso oltre la finestra. Ancora e ancora. Senza cedere un centimetro dal suo raggio. Poco dopo era arrivata la seconda scarica.
“Bastardi di peones!” Aveva sentito sdegnarsi alle sue spalle. Il suo attendente allampanato aveva avuto un fratello ucciso pochi mesi prima. “Pezzenti stramaledetti!… Merde fumanti!”
“Rodrigo, ti prego!” Aveva lanciato il capitano, voltando il capo di scatto verso il subordinato alle spalle.
“Mi scuso signor capitano!” Il sergente si era irrigidito buttando il petto in fuori.
“Non voglio sentire commenti – aveva incalzato l’ufficiale – Se vuoi guardare, guarda. Ma stai zitto!” Il suo sguardo sulle ultime parole era finito di nuovo oltre la finestra, sul piazzale movimentato della caserma. Nella polvere di quella giornata asfissiante, altri soldati stavano.
Chi disposto in riga per due, chi ad accompagnare e spostare.
“Oggi ne sono previste sedici, signor capitano” Aveva sussurrato Rodrigo
“Sedici sì…E siamo solo a quota due” Aveva rilanciato il comandante, come fosse al mercato delle vacche.
“Ci sarebbe anche quella…Quella Isabela...Isabela Exteberrìa. Sono diciassette signor Capitano”
“Sì, diciassette” Aveva confermato con voce profonda, guardando sempre oltre la finestra, mentre una terza scarica si spiegava nell’aria.
Nell’area polverosa sotto gli uffici dell’amministrazione, due file di soldati parallele, una di accovacciati, l’altra di ritti col fucile imbracciato attendevano. Tre uomini portavano via un corpo disteso come una coperta sotto un muro crivellato, tre uomini ne portavano un altro che camminava già morto. Dietro di loro un prete corvino con libro e croce in mano.
Il quarto uomo, sotto gli occhi dell’ufficiale, accondiscese a farsi slegare, accettò l’estrema unzione del prete e si godette quel sole forte, per effetto di una squarcio geometrico dell’ombra, che regalava luce in forma di triangolo giusto nella zona dell’esecuzione.
Con la dignità di una statua, il condannato porse il viso al plotone. La quarta scarica lo colse in pieno. Le palpebre del capitano non vibrarono più.
“Posso signor Capitano?”
“Che c’è Rodrigo, dimmi…”
“Volevo chiederle, se posso permettermi…”
“Puoi”
“A lei non piace questo. Perché lo guarda?” Una quinta scarica entrò nell’ufficio al terzo piano della palazzina, come fremito in un crine di cavallo.
“Perché è scritto – rispose il comandante, senza voltarsi dal piazzale -. E’ scritto nel regolamento degli ufficiali..” E recitò a memoria. “Qualsiasi ufficiale si venga trovare in zona di esecuzione capitale, deve fermarsi e assistere sino al termine. Nel caso di assenza, impossibilità o incapacità del comandante del plotone, esso deve sostiuirvisi e assicurarne…Sì, vabè. Ci siamo capiti Rodrigo”
“Ma non capisco Signor capitano, in questa caserma ci sono almeno quattrocento ufficiali…”
“Non fa niente. Un regolamento è un regolamento”
“Mah”
“Niente “ma”. Forse è per questo che non sei un ufficiale”. Sesta scarica.
“Forse è per questo, sì”
Terminata la serie di fucilazioni maschili, poco dopo fu la volta della diciassettesima esecuzione.
Isabela Exteberrìa, si diceva fosse una delle amanti del generale Rodolfo Fierro, era stata catturata poche settimane prima. In un cesto le avevano trovato tre pistole e una granata. Nel tentativo di fuggire aveva sparato a due guardie governative. Una era morta. Oggi era lì, vestita in modo dimesso, con i suoi capelli screziati di bianco, il suo viso di quarantenne sofferta e movimenti pieni di calma e dignità. A rifiutare l’estrema unzione con un sorriso gentile, a rifiutare il fazzoletto nero sugli occhi.
Il plotone seguì gli ordini e la donna gridò: “Viva la rivoluzione! Viva Villa! Arriba Mexico!” La diciassettesima scarica le tolse il fiato. Per sempre.
Il capitano seguì la scena, le sue palpebre vibrarono ancora, per l’ultima volta quel pomeriggio.
Due soldati degli otto erano rimasti a capo chino, nell’atto di sparare.
Nel piazzale il tenente che li comandava gli si era avvicinato furibondo e aveva cominciato a frustarli sul viso col suo scudiscio: “Cabrones! Hicos de pierro!” Le sue urla si erano levate alte, ancor più di quelle della donna sacrificata, da dea perdente di una guerra. Uno dei due si era inginocchiato piangente, l’altro rimasto in piedi, due compagni più in là sempre nella fila davanti, meglio porgeva le guance a quelle frustate profonde.
“Vedi Rodrigo? Noi fuciliamo le donne..Abbiamo il nemico fra di noi, dovremmo cercare un’altra strada”
“Dovremmo, signor capitano. Ma chi deve morire, deve morire…”
“E chi lo decide?”

Howard aveva ancora in mente il viso di Paco, mentre raccontava con il suo fluire sereno e il suo sguardo luccicante. Aveva ascoltato i suoi racconti dettagliati la sera prima e se li era lasciati scivolare dentro. Aveva accumulato sensazioni, pulsioni, emozioni. Mentre il messicano dal pizzo brizzolato raccontava della sua storia, con un sorriso di serenità che sapeva di sinistro, in fondo.
Mentre il treno viaggiava e il suo sguardo si rifletteva assorto in quel paesaggio, Howard era scivolato di nuovo sul pensiero di quell’uomo che gli aveva dato ospitalità, che gli aveva aperto la casa e gli aveva raccontato di sé. Pensò, ma solo per un attimo, di dare i suoi lineamenti al protagonista di una delle sue storie, di dargli il suo peso, il suo spessore umano, la sua languida inquietudine. In una serenità che poteva scavalcare, gli sembrò, qualsiasi ostacolo ora. Sulla scorta del suo vissuto. Era una storia semplice.

“Capitano De Los Rios eh..” Quell’uomo impolverato e carico di armi gli si era avvicinato serio, tenendo il documento militare aperto davanti agli occhi.
La carrozza del treno era pervasa da una puzza di polvere da sparo e di sudore rancido che faceva rabbrividire.
Davanti all’ufficiale di amministrazione, due uomini, fra questi Rodrigo, giacevano. Uno bocconi, l’altro, il suo attendente, piegato innaturalmente su una sedia col sangue che gli colava dalla bocca aperta e uno sguardo vitreo che parlava di morte.
Paco, con le mani legate dietro la schiena era in piedi.
“Voglio..”
“Tu voi, porco?” L’aveva zittito uno dei due uomini che lo tenevano fermo per i bicipiti.dandogli anche un doloroso strattone.
“Cosa vuoi?” Si era avvicinato il generale
“Vorrei chiedervi di chiudere gli occhi al mio attendente”.
Il treno militare sul quale avevano viaggiato verso Chihuahua, era fermo, mezzo in fiamme, mezzo no.
Era bastata una carica sulle rotaie pochi metri più avanti la motrice e centinaia di ribelli avevano fatto a pezzi tutto. Convoglio immobilizzato, vagoni, anime di trentasette soldati governativi. Oltre a quella decina che si era arresa.
Il generale Fierro aveva fatto un cenno col capo a uno dei suoi e questi si era chinato su Rodrigo Estevez dando pace definitiva al suo sguardo.
“E ora cosa vuoi Mon Capitain? Vuoi anche un caffè?… No?” Aveva sorriso brevemente Fierro, con tono ironicamente accondiscendente. Il suo fiato amaro arrivava alle narici dell’ufficiale.
“Ti sei difeso bene –aveva ripreso il comandante -. Molto bene per essere un contabile e sai sparare…”
“El Gèneral abbiamo trovato la cassa” aveva prorotto un ribelle di Pancho Villa, entrando nella carrozza alle spalle del suo capo.
“Bene, vai” Gli aveva indicato Fierro senza voltarsi, poi aveva ripreso.
“Ora non mi servi nemmeno più per questo “mon capitain”…Hai paura di morire?”
Paco de Los Rios aveva chinato il capo piano, come segno di assenso. Poi era tornato su quella figura tarchiata, ne aveva osservato gli occhi verdi, il baffo fluente, l’abbronzatura maculata alle orbite, i denti bianchi. Si sentiva già morto, ma questo non lo faceva sentire meglio.
“Bravo, devi averne. Perché vedi noi non facciamo prigionieri fra gli ufficiali. Troppo pericoloso…E allora c’è un problema. Cosa me ne faccio di te?…”
Si era seduto al tavolo rotondo. L’unico che non si era rovesciato durante la sparatoria.
“…In fondo sei un militare, anche se solo un contabile ed è un peccato sai? Se fossi stato anche solo Colonnello avremmo potuto chiedere un riscatto. Ma sei solo…Solo un nulla. E non hai nemmeno segreti da dirmi mon capitain…”
“E’ vero, non ho segreti”
“Bene, dimmi allora capitano…Capitano De Los Rios, dimmi una ragione perché dovrei evitarti la morte. Una sola”.
Paco stette in silenzio alcuni secondi, sentiva le braccia allungarsi dietro la schiena, tendersi dolorosamente, il sangue non fluiva più alle mani. Poi parlò, non per illudersi di salvarsi la vita e nemmeno per vendetta anticipata. Parlò e basta.
“Isabela Exteberrìa”
Fierro abbassò lo sguardo un attimo, indicò ai quattro uomini di uscire con un cenno secco del capo. Poi, rimasti soli, tornò sul suo prigioniero e sorrise cattivo
“Sentiamo”
“Io ero lì quando è stata fucilata…L’ho sentita gridare per tre volte. –disse le tre frasi-.. Ora che sto per morire, capisco quanto è difficile farlo. Capisco quanto è difficile non piegarsi e implorare pietà di fronte alla morte. L’apprezzo per questo e penso che se ce l’ha fatta lei, posso farlo anche io. Stando zitto, io non ho motti da gridare”
Fierro si passò l’avambraccio sulla bocca come per asciugarla e rimase in silenzio a fissarlo seduto.
“Isabelita era la mia donna”
“Lo so”
“Tu non hai un cuore da soldato mon capitain…Perché hai scelto così?”
“Non lo so. In guerra, per un soldato è più facile forse…Spari e uccidi, ti sparano e muori. Senza sfumature, senza compromessi, senza altro dolore forse. Io oggi muoio. Se puoi fai in fretta, ho paura… Questo è dolore che non ho scelto”
El gèneral Rodolfo Fierro si alzò ed estrasse una delle pistole appoggiate alla cartucciera di tracolla e gliela puntò verso la faccia. Il suo sguardo deciso, che aveva in sé tutta l’assurda praticità di una guerra di rivoluzione combattuta fra poveracci puzzolenti e soldati senza anima, parve sciogliersi in una piega di riflessione. Inaspettata, inattesa, sconcertante.
“No capitano De Los Rios, oggi credo che tu non morirai. Ti voglio fare un regalo, anzi…”
Chiamò due dei suoi, lo fece slegare, poi gli afferrò la mano e trasse dalla tasca un taglia sigari ottonato.
Lo infilò al mignolo della docile destra di Paco.
“Viva la Ri-vo-lu-zi-o-ne” gli sussurrò mentre la lama affondava in quella carne con un lento e implacabile incedere. Si sentì il primo soffice tonfo di propaggine innaturalmente caduta.
“Viva Vil-la” Ripetè l’operazione sull’anulare con uno scatto più veloce.
“Ar-ri-ba Me-xi-co” Concluse lo scempio sul medio, con tutta la lentezza di quel sillabare assurdo.
Gli occhi piangenti di paco, il suo mordersi il labbro interno, la voglia di urlare repressa per orgoglio lo fecero accartocciare sul suo sangue che continuava a colare.
Poi, lento e inesorabile, partì il primo singhiozzo di dolore fisico che si fece lacrime, che si fece urlo sommesso come di bimbo che vuole piangere, ma non può.
Fierro estrasse dalla tasca un fazzoletto bianco e glielo porse.
“Ora mon capitain devi imparare a convivere con tutto quello che c’è in mezzo fra l’uccidere e l’essere uccisi… Le tue tre dita me le prendo io. Appartengono a Isabela”
Paco De Los Rios lo guardò dal basso, paonazzo e piangente. Ma recuperò senno e forza di combattente e con un cenno repentino del capo fece di “sì” con la forza di un’antica dignità militare.
Una volta che i rivoluzionari se ne furono andati, dopo aver ucciso gli altri otto prigionieri, Paco de Los Rios era rimasto solo nella campagna brulla.
Barcollante, si urinò sulla ferità per disinfettarla, estrasse un fazzoletto dalla tasca di un compagno caduto e si fasciò, tamponando il suo sangue.
Cammino, solo, per dodici chilometri fino a Chihuahua.

“Io non so perché Fierro mi fece questo, al posto che uccidermi – aveva detto ad Howard, la sera prima, mentre sbuffava col suo ennesimo cigarillo – e per anni ho solo pensato a che bastardo fosse stato a mutilarmi in questo modo, a lasciarmi monco, senza la mia dignità di soldato. Poi, quando il tempo ha lenito questo dolore ho cominciato a capire…No, mister Howard. Io non credo che Fierro avesse voluto semplicemente salvarmi la vita.
Sì, forse vide nei miei occhi una luce di lealtà che lo spinse a farlo, ma non fu solo questo. Io credo che volesse regalarmi davvero qualcosa, forse un’altra opportunità di vita, da spendere così – e alzò la destra coi tre moncherini, sorridendo sereno – lontano da un vivere che non era il mio. Io questo credo: mi spinse davvero a esplorare tutto quello che c’era in mezzo fra lo sparare e uccidere, l’essere sparati e morire.
Ora, mister Lovecraft, lei viene da me e mi dice che queste tre dita sono la mia forza… Il mio segreto quando preparo il caffè – sorrise - . Non lo so, ma è un’affermazione curiosa, non ci avevo mai fatto caso. La verità è che nulla varrebbe il dolore di averle perse in quel modo, forse solo una nuova vita. Della loro mancanza pensavo di non rammaricarmene più, ma di gioirne…” E con il suo sguardo furbo rialzò la mano e agitò le dita della destra. O quello che ne rimaneva.

Quando Howard Phillips Lovecraft, tornato da Cleveland, rientrò a Providence con virtuali ragnatele sugli occhi e una sensazione di sonno arretrato, lo fece con la certezza di un matrimonio dissolto che si sedimentava dentro il suo cuore e l’abbozzo di un nuovo racconto.
Non sapeva ancora come svilupparlo, nemmanco da quale anfratto tenebroso del suo immaginifico attingere le figure mostruose che lo avrebbero caratterizzato; sapeva però, già in parte vergate su uno dei suoi taccuini, che carattere e che umanità articolata avrebbe avuto il suo protagonista.