giovedì 18 giugno 2009

L'occasione della forma 22^ - "Stride la strada sfuggente..."


Guillermo Benitez de Alphonsine era un tipo strano. Uno che staccava i tappi delle bottiglie di Cerveza semplicemente coi denti.Tutti finti naturalmente. Da quando pochi anni prima con la sua motocicletta aveva cercato di valutare le conseguenze di un impatto sul sottile muro di mattoni di un fienile. Così: direttamente a cavallo del suo mezzo. Il muro era caduto, il motociclo si era accartocciato e lui era finito sotto le cure di almeno tre diversi chirurghi maxillofacciali. Gente in gamba nella Barcellona degli anni ’20, che era stata in grado di rimetterlo in piedi in qualche modo e assicurargli una nuova bocca e qualche cicatrice in meno. Lui si era ripreso bene, almeno nel fisico possente. Un collo taurino che probabilmente gli aveva salvato la vita e due braccia come due tronchi d’albero. Nerborute e fortissime. Certo non era una bellezza ormai. A 26 anni era uno sfregiato dalla fronte al mento, con pochi capelli e due occhi azzurri vividi e reattivi. Sì perché Gulliermo Benitez de Alphonsine non era uno scemo, ne tantomeno lo era diventato per effetto di quello schianto. Era semplicemente uno che aveva le sue teorie. Pittore di discreta fama, scrittore e poeta scadente, per la semplicità astrusa e scimmiottesca dei suoi versi e del suo periodare. Fra le ramblas era conosciuto come uno svelto a dar di mano, dal pensiero raschiante e dal fascino folle, tipico di chi ha già scelto cosa essere. Insanamente.
Quando in quelle sere d’estate arrivava con la sua ennesima motocicletta scoppiettante e i suoi occhialoni da aviatore, non si poteva non notarlo. Il mezzo sbuffante spesso si fermava direttamente sul marciapiede più popolato e, dopo una brusca e invadente frenata, questi scendeva come da cavallo, lasciando rovinare a terra quell’ammasso di ferraglia. Esteban non ci aveva quasi mai avuto a che fare in quegli anni, in quelle sere dissolute: lo considerava un idiota. Semplicemente. Uno di quelli da cui era meglio, molto meglio stare lontani, perché avrebbe portato guai, con quel parlare al plurale, quel ragionare fatto di motti e assurdi schemi logistici. Quell’incredibile mancanza di timore e pudore. Nei confronti del prossimo, di se stesso.
Una sera Gulliermo con la sua moto strombazzante si era posteggiato, alla sua maniera, direttamente davanti al tavolino di un bistrot, dove una coppia si scambiava una serie di sguardi languidi, specchiandosi in un bicchierino di porto bianco. Un paio di schizzi d’olio nero, dagli ingranaggi del motociclo, erano terminati sulla candida manica destra del vestito della giovane donna. Una ballerina olandese che da qualche giorno si accompagnava a un gagà del posto. Immediata si era sfiorata la rissa, con il sanguigno centauro a brancare per il collo il damerino, più alto di lui di almeno quindici centimetri. Solo l’intervento della ragazza, evidentemente in grado di toccare le corde giuste dell’energumeno, aveva salvato il collo del suo accompagnatore e probabilmente anche qualche dente. Esteban Labruna da quella esperienza diretta in poi, si era deciso a voltare lo sguardo ogni volta che questi faceva irruzione nella sua cerchia di amicizie altolocate. Fosse a qualche festa privata, piuttosto che al “Forat Vermell”, o che in qualche bordello del centro. Ma la sue sensazioni erano strane: dopo che Guillermo, mesi prima gli aveva affondato le unghie nel collo, aveva come la sensazione che questi si fosse dimenticato, non solo del suo gesto, ma anche di chi fosse lui. La cosa non poteva che rassicurarlo, visto che non c’è esigenza più pressante da parte del maschio che quella di essere dimenticato e dimenticare. Quando si è stati protagonisti di una brutta figura sul piano fisico. Ed Esteban, da Guillermo, aveva davvero rischiato di prenderle “sode”.

Quando gli occhi del giovane architetto caddero fra le righe del quotidiano, fu come per certi artisti avere l’ispirazione e doverla assecondare immediatamente. Come il fischio di una teiera ribollente che ti richiama o, per meglio dire, ti annuncia che il momento del the è davvero arrivato. Così stralciò la pagina interessata, quella mattina, e invertì la rotta tornando verso la casa di Estrela. Aveva come un picchio nella testa che gli batteva forte. Nemmeno due giorni e sarebbe dovuto andare dall’eminenza a rendere conto, doveva avere un piano preciso dove poggiare la propria forza d’animo. Sapeva che senza qualcosa ad alimentare quella, la sua indecisione avrebbe potuto costargli cara. Davvero troppo cara.
“E chi è questo?” Gli fece Estrela aprendo il foglio del giornale stropicciato
“E’ un uomo importante, un italiano…” Rispose
“E cosa c’entra con tuo nonno?” Aggiunse poco indulgente la ragazza
“Niente, almeno per ora…Ma questa è gente che non ha paura, sono dei pazzi”
“E quindi? Pensi che ti possano servire solo per questo? Sei un illuso Amancito…”
“Beh, provare non costa nulla no?”
“Già solo brutte figure…” Lei gli sorrise beffarda, ma in fondo ammirata.

Mentre saliva le scale circolari di quell’abitazione al terzo piano, il giovane Labruna giudicava fra sé quanto facile fosse farsi riconoscere nella sua città e giudicava un po’ inquietante quanto fosse parimenti semplice ottenere indicazioni precise su qualsiasi persona che frequentava quel microcosmo ribollente delle ramblas. Dove magari non ci si conosceva di persona, ma ognuno sapeva tutto. Di tutti.
Per sapere dove Guillermo abitava gli era quindi bastato chiederlo a uno dei suoi tanti conoscenti. Aveva ottenuto indicazioni sulla sua abitazione e non solo: sulle sue abitudini. Sapeva quindi che questi lavorava dall’alba prestissimo, fino al mezzodì, per poi dormire fino al pomeriggio inoltrato.
Alle 10 di quella mattina bussò alla sua porta, non senza agitazione.
“Che c’è? –sentì la voce dell’artista, prorompere dall’interno – Chi ci viene a disturbare? Scio! Via!” Rispose una voce decisa, solo leggermente ironica.
“Signor Benitez, mi chiamo Esteban Labruna. Ci conosciamo…” Azzardò Esteban.
“Ci conosciamo eh?” Rispose Guillermo, mentre si sentì lo scatto della serratura e la porta si apriva.
“Sì, ci conosciamo, il suo viso non ci giunge nuovo, per quanto non ci ricordiamo, in quale occasione…”.
Un uomo “trapu”, con due occhi azzurri e uno sguardo accigliato si affacciò all’uscio.
“Sulle ramblas, Signor Benitez, ci hanno presentati mesi fa…” Lo interruppe, non senza sollievo l’architetto, mentre assecondava l’invito di Gulliermo, porto con un gesto repentino del capo.
“Sì, forse. Quale sarebbe il motivo della sua visita, signore?” Nell’anticamera, dipinti cuneiformi a stilizzare volti dalle smorfie metalliche si stagliavano nella poca luce. Cromatismi delineati e semplici in quelle opere. Nell’aria, strano odore di polvere da sparo.
“Mi hanno parlato di lei l’altra sera. Lei, come pittore, ormai gode di grande fama in città e…” Lo adulò Esteban.
“Sì, sì va bene..Questa città ha il vizio statico di eleggere l’immutabile come riferimento. Ci vien voglia di smettere di dipingere”.
“Beh, non prima di avermi concesso di poter vedere le sue opere, di cui mi hanno parlato in molti. Per lei potrebbe essere una buona occasione per monetizzare. Non guasta mai, no?”
“Monetizzare. Monetizzare. Non abbiamo bisogno, noi, di monetizzare…Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno qui. E anche di quello che è futile, ma crea movimento, rende meno immobili le nostre vite..Ma ci diceva: lei è qui per i nostri quadri. Vero?”
“Esatto” Annuì Labruna, superando per un attimo la tentazione adulatoria, di chiamare quell’essere: “Maestro”. Lui, che era stato l’assistente di Antoni Gaudì.
Superò di slancio questo ridicolo e adulatorio impulso..
“Ma i nostri quadri. I nostri quadri non sono per tutti… Potremmo dirle Labruna che non è una questione di prezzo e che potremmo tranquillamente regalargli quello che preferisce, se non fosse che…” Fece una pausa teatrale.
“Se non fosse che?” Incalzò curioso e sconcertato.
“Se non fosse che abbiamo la certezza che debbano essere i quadri a scegliere il proprietario”
“…In che modo signor Benitez?” Fece Esteban, mentre pensava: “Questo è pazzo”.
“In vari modi…Si accomodi”.
L’artista motociclista lo fece sistemare in un ampio soggiorno pieno di quadri alle pareti, dove la stilizzazione del rappresentato, fossero volti, strade, città, finanche paesaggi rurali, si poggiava su una particolare combinazione di linee rette. Orizzontali e verticali. Rese da colori vividi e accesi, piuttosto che da sfumature monocromatiche. Come scalpellati in materia che concedeva solo la possibilità di un tratteggio lineare, privo di curve, di afflosciamenti, di naturale tondeggiare. In essi dominava la focalità di una luce, che tutto illuminava da un originario punto, spesso invisibile perché esterno alla raffigurazione, e verso cui tutto sembrava rapportarsi.
Era l’idea di un movimento nella staticità del quadro. Di più: di una velocità di immagine che toccava e avrebbe potuto emozionare in un sonoro che s’invitava all’ascolto, con le orecchie della propria sensibilità artistica.
A Esteban Labruna, in attesa che Guillermo ricomparisse alle sue spalle, piacque in particolare la raffigurazione di due volti quasi sovrapposti in un profilo urlante. Piacquero quegli zigomi delineati come triangoli incompleti, quei nasi pizzuti come fossero cunei, o spessori di porte cigolanti. O anche chiodi metallici lucidissimi. Ed era vero: forse, da volti così stilizzati, l’urlo che ne scaturiva non poteva che essere di metallica ridondanza. Come il verso di certe gru stridenti al cantiere del suo maestro. Forse anche per quel non-udire l’architetto fu affascinato sinceramente, al di là di quella pantomima che aveva mandato in scena.
“…Capire la nostra arte Labruna, - riprese Guillermo - è capire soprattutto il nostro credo. La pittura è solo uno dei nostri modi per esprimerci ed è il modo forse più complicato per noi. Un quadro è tratteggiato per sempre, potrà esprimere un movimento, un’idea di suono, di meccanicità ma in quanto raffigurazione nasce e si fossilizza su un immagine che rimarrà quella. Senza modulazioni, senza cambiamenti. La parola, la scrittura, sono in grado al contrario di modificarsi e di trasmettere meglio quell’idea di velocità, di meccanicità, di cambiamento che ci è cara…”
Esteban ascoltò senza contraddirlo. Non lo avesse mai fatto…
Benitez aveva aperto il cassetto più alto del suo trumò e ne aveva tratto dei fogli. Cominciò a leggere teatralmente…

“Stride la strada sfuggente
sotto ruote di ferro gommato
Stralcia la ghiaia, arranca la sabbia
Stordisce la via nel fuoco centrale che chiama

pof pof pof…roarrr…traratatata..buuummmm

Fischia il motore intriso nell’olio
In effluvi patrizi di benzina che frigge
Fra plebe di carri e bestie trainanti
Di uomini lenti e ferraglia bàsita

pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm
pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm

Romba il motore, spinge la via,
piega le piante con sbuffi di fumi e liquami
Su molle ondeggianti dai rilievi cromati
In manici tesi e fanali

pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm
pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm
pof pof pof…roarrr…traratatata..buuummm

Occhiali cinghiati su elmi di acciaio
Mani di cuoio a domare cilindri e pistoni
Brandeggio di bracci di ghisa su perni e rondelle
Raggi argentati in lamine fiere

pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm
pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm
pof pof pof…roarrr…traratatata..buuummm
pof pof pof…roarrr.. tratatatata..buummmm

Stride la strada sfuggente
Sotto ruote di ferro gommato
Per chi di metallo s’arma
Di velocità bramoso”


Esteban rimase fermo, seduto sul divanetto, gambe accavallate.
A bocca aperta, quasi gli mancassero non solo le parole, ma anche i pensieri. Poi capì la natura di quello stato di estasi.
“Che cazzata immane!” Pensò fra sé, trattenendo a stento quel ridere di bambino indisponente che montava come un toro nell’arena, come pazzia allo stato puro. La stessa che ti fa perdere il controllo di te e ti fa ridere paonazzo, mentre ti pieghi in due. E non vorresti. Non dovresti.
“E’ bellissima – quindi disse, quasi violaceo, mantenendo la posa -.Mi sento un groviglio di passioni che mi assalgono”
Fu un miracolo che quella frase buttata lì, quasi mnemonicamente, fermasse quella mula cocciuta che arrancava, fra mille ostacoli autoconservativi, nella salita della sua ilarità.
Guillermo Benitez de Alphonsine aveva recitato come artigliere vicino al suo obice. Aveva scandito come un infante il suo scritto, vermiglio nel viso che ripeteva ingenuo il verso della marmitta, il cigolare della sua moto, lo strepitio del suo motore. Poi col mento proteso verso l’alto, in una posa che voleva simulare atteggiamenti tirannici e saccenti di certa politica tanto in voga, era rimasto. Fermo e in piedi, con la sua mano poggiata al mobile. In attesa dell’applauso.
Che arrivò leggiadro e finto, dai palmi del suo ospite.
Falso e beffardo come la pirite nella mani del cercatore d’oro.
“Straordinaria, Guillermo. Davvero impressionante” Rincarò Labruna, ormai di nuovo padrone di sé. Talmente lucido da notare un sorrisetto di compiacimento un po’ da ottuso di quell’uomo sfregiato, che non sapeva di essere in realtà canzonato.
“Vede Esteban. Noi sperimentiamo tutti i tipi di arte, dove arte diventa movimento, velocità penetrante di messaggio e sensazione di cambiamento. Di progresso, di natura che è piegata. Dalla capacità dell’uomo, dal suo ingegno, dalla sua creatività. Sia meccanica, sia artistica”
“Trovo che la sua composizione, Guillermo, sia incredibile. Assolutamente in grado di suscitare emozioni, passioni, riflessioni. Che magnifico dono è la capacità espressiva di un artista!”
“Sì, lo crediamo anche noi...Ma crediamo che la capacità degli artisti debba anche essere quella di selezionare il proprio pubblico, la propria platea di uditori. E’ per questo che noi non vendiamo i nostri quadri, ne tantomeno cerchiamo di esporli. Non declamiamo i nostri scritti in pubblico e di fronte a estranei. Non esitiamo le nostre sculture. Vogliamo solo trovare interlocutori degni della nostra creatività. Vogliamo e possiamo. Perché ce lo possiamo permettere. Ergo siamo artisti liberi, nel vero senso della parola, giacché non dipendiamo dal denaro”.
“La nobiltà dell’arte, svincolata da ogni compromesso. Che splenda occasione!” Rilanciò Esteban con la falsità debordante, di chi rischia di esagerare. “Che pallone gonfiato di vanagloria”. Pensava fra sé.
“Esatto, caro amico”.
Esteban pensò in quel momento di avercela fatta, di aver fatto breccia nella sensibilità egocentrica di quel bravo pittore che disprezzava la pittura, di quel poeta scadente che si considerava un genio della composizione poetica. Ma lo fu solo per un istante, quella mattina.
“Le andrebbe di vivere un’esperienza fuori dal comune?” Gli chiese subito dopo Benitez.
“Io? Non saprei”
“Perdoni la nostra franchezza: abbiamo visto come guarda il nostro “Gemelli metalli”…Vorremmo regalarglielo Labruna, ma non prima di essere certi che quel quadro finisca nelle mani di chi possa capirne il vero significato. Non è un atto di sfiducia, amico mio. Al contrario: è solo un modo per renderla veramente in grado di apprezzarci. Apprezzarci ben oltre l’immagine del dipinto”
“Ci sarò – rispose immediato Esteban, deglutendo – Dica solo quando e dove”. Labruna ebbe la sensazione di cacciarsi in qualcosa di cui, poi, si sarebbe pentito. Ma ormai era lì, doveva andare fino in fondo.
“Diciamo: subito. Diciamo: qui. Inutile rallentare la nostra conoscenza” Sorrise lo sfregiato dagli occhi azzurri, con una vena di sottile sarcasmo.
In breve l’ospite di Esteban sparì uscendo dal soggiorno, lasciando spazio d’azione al suo invitato. Il giovane architetto si guardò ancora intorno, osservò i quadri, si beò della possibilità di accaparrarsi quel dipinto, “Gemelli metalli”, e giudicò quanto azzeccato fosse quel titolo. In qualche modo aveva raccolto la sua attenzione, malgrado tutto quel fingere e quello sfottere sleale. “Gemelli metalli” gli piaceva, come può piacere una donna dal lineamento particolare, magari lontano da quella bellezza canonica che, troppo spesso, risulta l’insano parametro dettato da una moda passeggera. “Gemelli metalli” dava emozione e per un attimo Esteban si distrasse dalla natura della sua vera missione a casa di Benitez de Alphonsine.
Non era lì per portarsi a casa quadri, ne per ascoltare allucinate poesie, ne tantomeno per vivere.. “Esperienze fuori dal comune”.
“Eccoci” Proruppe il padrone di casa a interrompere queste riflessioni, dopo una manciata di minuti.
E per Esteban fu come ricevere un cazzotto in pieno stomaco, tanto che quasi gli mancò il fiato, visto che dall’abbigliamento dell’artista, si capiva tutto della natura di quello che lo aspettava.
“No in motocicletta no!” Sussurrò fra sé l’architetto, come ad appassire ogni desiderio in una vita futura.
In piedi con le mani sui fianchi, solo leggermente ondeggiante, Guillermo si era presentato tutto cinto da capi in pelle. Di color marrone nei pantaloni, nero nella giacca con collo di pelo. La sua destra, invece, stringeva un paio di guanti. Pure neri.
“Sul nostro motociclo, c’è posto anche per lei..Vedrà sarà un’esperienza indimenticabile”
“Sono pronto” Sorrise Labruna che già le gambe gli tremavano.
“Si metta questo” e porse all’architetto un giubbotto di spessa e ruvida pelle marrone.

Il motociclo era italiano. Di un rosso fiammeggiante, con aquila gagliarda stilizzata in rilievi dorati nel simbolo sul serbatoio. Guillermo vi saltò sopra e vi si sistemò come un buttero che inforca la sua giumenta, con un colpo di tallone fece saltare il cavalletto e quindi scaricò il peso sulla parte destra, aggrovigliando il motore sferragliante e dando di manopola. Il mezzo rispose come un cerbero sonnecchiante, ma per nulla infastidito. Si mise in moto fragorosamente con il crepitio di qualcosa che è pronto all’avventura.
“Lo sente Labruna ?– fece il pittore soddisfatto, sovrapponendo la sua voce al frastuono – E’ la forza di decine di cavalli. Tutta qui: imprigionata nelle nostre mani, fra le nostre cosce, sotto i nostri piedi. Che splendida emozione! Monti…Veloce”.
Esteban Labruna inforcò il mezzo e si dispose sulla sella rettangolare alle spalle del centauro. Lo cinse alla vita in posa femminea. Appoggiando il capo alla nuca del suo ospite. Gli venne in mente quella storia.
La storia degli sfregi di Guillermo Benitez de Alphonsine, dei suoi denti rifatti, del fienile abbattuto. Chiuse gli occhi ed ebbe la tentazione di disarcionarsi.
Non fece in tempo.

Barcellona era bellissima quella mattina. Poco prima del mezzodì sembrava raggiungere l’apice della sua vivacità cromatica e acustica. Il sole caldo, ma ancora discreto in quella stagione permetteva di osservare una città brillante. Nei passanti, nelle strade affollate di automobili e carri e cavalli e rumori e tutto quello che poteva renderla viva. Come un corpo di donna che si agita in una danza suadente e priva di malizia. Come un luogo che poteva risultare pericoloso, quasi suicida, attraversare a dorso di una moto. Quando il guidatore era Guillermo.
In poco più di trecento metri il centauro pittore sfiorò due autovetture in transito nel senso opposto, quindi effettuò una gimcana fra due carri carichi di masserizie, schivando per la velocità anche le bestemmie colorite dei padroni, quasi investì due passanti e infine affrontò una prima scalinata in discesa. Così, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Fu poco fuori la città, quando Benitez cominciò a piegare il mezzo sulle curve della costa con vista mare, che quel viaggio si fece serio. Il pittore cominciò a parlare.
“Siamo a 120 chilometri orari! Che mezzo questo! E’ Il monocilindrico più veloce del mondo …Ha paura Labruna?”
“Io? No…” Rispose l’architetto che da un pezzo non osservava più la strada e faticava a seguire il discorso del pittore, la cui voce a tratti era nascosta dal raschiante scalare di marce, dallo scoppiettare convulso del motore. E più Labruna non rispondeva, più il suo compagno di viaggio alzava la voce a imporla su tutto.
“La velocitàaaaaaa! La velocità è il senso della nostra vita Esteban…Non c’è passione, non c’è vivere senza quella. C’è solo un sopravvivere. Le dirò che noi disprezziamo chi si accontenta del solito incedere, chi non sfrutta la meccanica, gli effluvi di benzine e oli per spingersi oltre e arrivare prima. Non importa dove, Esteban amico mio, importa come! Comeeeee!”
La moto italiana di Guillermo sembrava di minuto in minuto sempre più veloce, sempre più attaccata alla strada. Solo a tratti coperta d’asfalto. Ed era vero, pensava l’allievo di Gaudì, quel disagio nell’osservare la via diventare un punto infinitesimale sul proprio assurdo percorso, faceva mancare il fiato, percuoteva le corde degli istinti più profondi della persona. Da quello di sopravvivenza che voleva spingere Esteban a saltar giù da quell’ammasso di ferro, a quello dell’orgoglio che lo spingeva a resistere, per passare alla paura pura. Quella che ti rende immobile, irretito, schiavo dell’impossibilità di reagire.
Guillermo nelle sue evoluzioni folli spinse il motociclo fino a 130 chilometri orari, sfiorò due strapiombi, nel piegarsi provocò scintille fra la pedaliera e il selciato con una regolarità disarmante. Tanto che a Labruna, quella corsa all’una del pomeriggio, sembrò più un combattimento col diavolo che non la smargiassata di un semplice pazzo.
Un “pazzo” che, intanto, continuava a parlare:
“La sente Esteban –disse, sovrapponendo la sua voce al crepitio del mezzo, durante una piega paurosa in una curva a gomito – E’ la strada che stride…Che sfugge sotto le nostre ruote gommate, che aggredisce la ghiaia! E si spinge là al centro della nostra vista. Dov’è la nostra meta… Fischia il motore intriso nell’olio…In effluvi patrizi di benzina che frigge. Fra plebe di carri e bestie trainanti di uomini lenti e ferraglia basita…Capisce ora? Lo vede. Lo tocca con mano! Questa è la velocità! Il furore della natura che cambia, perché cambia il nostro punto di vista…Noi siamo la natura! Noi decidiamo come deve essere e quando. NOI SIAMO! NOI SOLO!”
Esteban si sentì svenire per la paura in quel viaggio, sentì le parole del centauro, le ascoltò atterrito con la certezza di essere nelle mani di un pazzo. Ormai sconfitto e convinto di aver fallito.
Poi, all’altezza di uno spiazzo che degradava verso la spiaggia, la moto di Guillermo, sobbalzando, cominciò a decelerare. Quindi si fermò.
Guillermo si torse verso il suo passeggero e lo abbracciò forte. “E’ stata una grande esperienza vero?…Una di quelle che non si dimenticano, lo so. A noi non importa cosa dica la gente, il popolo delle ramblas. Noi viviamo per questo. Per questa emozione che ci fa sentire vivi. VIVI! Di carne e di sangue”
“Guillermo posso farle una domanda?” Abbozzò con un filo di voce Esteban, appena riavutosi dallo spavento lungo una corsa in moto di svariati chilometri, fino a uscire ad Barcellona.
“Il suo viso – chiese - Cosa le è successo?”
Benitez rise fragorosamente e poi singhiozzando ilare proruppe: “E’ tutto vero quello che dicono di noi, Esteban. Abbiamo sfondato il muro di un fienile con la nostra seconda motocicletta, tre anni fa”. L’architetto lo guardò stranito, già pensando al viaggio di ritorno.
“Ma non siamo pazzi… Potremo dirle che il problema non eravamo noi sulla nostra moto che andava a 60 all’ora. Il problema era quel muro che rimaneva ostinatamente fermo! - rise di nuovo, con un sarcasmo che a Esteban piacque – Ma no, non glielo diremo questo. Le diremo invece che avevamo rotto i freni in curva e che quell’impatto fu per noi inevitabile. Io non sono pazzo, amico mio..Amo tutto quello che il progresso può regalarci..Ma non sono pazzo, come molti credono”
Poi tirò fuori una susina dal giubbotto nero, la strofinò sull’avambraccio e quindi l’addentò come farebbe un cane con un osso. I suoi occhi azzurri s’illuminarono di un acceso senso di sfida. A se stesso.
Porse quel che rimaneva del frutto a Esteban, che ripetè l’operazione dalla parte sana.
Il mare in quella giornata di sole era calmo e riposante. Talmente quieto che goderne per un paio d’ore in quel giorno caldo, fu davvero un sollievo. Sollievo e pace per un bizzarro centauro e il suo furbo compagno di viaggio, in una conversazione davvero interessante.

A metà pomeriggio Esteban Labruna, dopo aver saltato l’ennesima giornata al cantiere, si presentò in anticipo a casa di Estrela. Sottobraccio aveva un voluminoso pacco dalla forma schiacciata e un sorriso di speranza che la donna smorzò subito, notando il rossore delle sue guance, del naso e della fronte. “Ti hanno cucinato bene, Amancito – gli disse, feroce -. Sembri saltato alla piastra. Cosa avrai da ridere, conciato così…”
Poi scartò il pacco che Labruna orgogliosamente gli aveva porto e.. “Sembrano due pazzi del sanatorio..Io questo obbrobrio in casa mia non ce lo voglio. Buttalo via” Disse.
Esteban si mise a ridere ed Estrela lo seguì, non capendo fino in fondo.
A sera, prima di cena, la donna spalmò sul viso dell’architetto un po’ di crema idratante. Una, due volte. Fu quella l’occasione per rimanere in silenzio. Un altro po’.
L’occasione di Esteban per tirare le somme di quel giorno così intenso, così strano.
“Lui sarà nostro ospite per qualche giorno. Terrà un giro di conferenze qui, in Catalogna – gli aveva detto Guillermo, sorridendo - . Ci sarà certamente occasione per farglielo incontrare…Sarà un incontro illuminante. Il mo maestro non è una persona comune”