martedì 4 agosto 2009

L'occasione della forma 23^ - Il "forse" non basta


Pablo aveva mani esperte e nodose, che muoveva agili che come fossero, a piacere e secondo utilità, cesoie, piuttosto che unità di misura, o magari uncini al posto che ferri da stiro. Era la sua abilità: quella di maneggiare le stoffe e i tessuti. Di plasmarli a misura delle proprie esigenze, dell’utilità del cliente. Faceva tutto o quasi meccanicamente, fino al momento in cui la sua piccola “genialità” non saltava fuori, nell’aggirare un ostacolo: una forma diseguale fra una scapola e l’altra, un giro vita sproporzionato da mascherare con un risvolto nascosto nelle pieghe di un pantalone, una giacca da modificare al modificarsi delle pinguitudini. Orpelli, giochi di fibre e tessuti, di aghi e di filo, di macchine da cucire, manovrate con olio di gomito. Pablo era un uomo che sapeva ascoltare e tacere, tagliare e strappare, ricucire e riadattare. Scelto per la sua bravura e la consapevole sapienza dagli uomini più potenti della Catalogna che da lui trovano abiti confezionati su misura e quelle poche parole illuminanti di uno che sa tutto, che non vorrebbe sapere e ancor meno dire. Personaggio che per le sue conoscenze poteva molto nell’accedere direttamente al potere, senza di questo desiderarne far parte.
Quel pomeriggio, Pablo “manos calificados”, ospitava nel suo laboratorio un seminarista prossimo ai voti. Un ragazzo magro e pallido con uno sguardo un po’ smarrito e poche parole incerte. La necessità era quella di riattare un vecchio abito nero nella foggia e nello stile dei preti giovani. Di quelli che si sa: ben difficilmente avranno porte aperte alla carriera ecclesiastica, perché in arrivo da polverose province, piuttosto che da fame e indigenza più assolute.
Prese le misure dei pantaloni, della camicia, poi afferrò la giacca del giovane, mentre questi, distratto dai movimenti sapienti del sarto, non fece il gesto di impedirglielo con eccessiva foga. Fu un agitarsi istintivo, privo di rabbia o cattiveria, ma denso di pudore e imbarazzi improvvisi in un istantaneo “tira e molla” da cinematografo.
Dalla tasca interna dell’indumento caddero una, due, tre fotografie dai bordi sfrangiati. In un silenzio assoluto, per qualche secondo Pablo rimase fermo con la manica della giacca in mano a osservare quelle figure rivoltesi a faccia in su dal pavimento. Stette così, per un tempo brevissimo che sembrò al giovane quasi prete, una vita interminabile.
Lo sguardo del sarto andò poi fugace al viso paonazzo del giovane e di nuovo al pavimento. Dove il tempo dell’immobilità finì nell’atto lento e sereno di chinarsi, impilare indifferente le fotografie e riconsegnarle al giovane. Senza fiatare.
“Queste..Queste non sono mie” Fece il prossimo sacerdote con ansia trasparente.
“Non importa. Non importa” Tagliò corto Pablo il sarto, mentre un sorriso bonario e carico d’indulgenza canuta ammantava il giovane uomo di chiesa.
“Potrò contare sulla sua discrezione Don Pablo?”
“Non esiste discrezione. Non serve. Io non ho visto niente”.
Sarebbe bastata una frase sussurrata a un monsignore, piuttosto che a un alto prelato nell’atto di riadattare una manica e l’accesso al sacerdozio di quel giovane magro come uno spaventapasseri, sarebbe stato impedito per sempre. Ma Pablo, il sarto di Cadaquès, tacque sereno. Per carattere, prima ancora che per indulgenza.
Non parlò mai con nessuno di quel seminarista, ormai sacerdote, che viaggiava con delle fotografie pornografiche nella tasca interna della sua giacchetta nera, più volte riadattata. Non parlò delle proprie perplessità, non indugiò nel proprio sconcerto. Non giudicò e non volle che altri giudicassero. Più volte negli anni, alle visite di quel prete che si faceva largo nelle gerarchie della curia, pensò a quel pomeriggio insolito nel suo laboratorio. Ma furono pensieri che rese sterili per precisa volontà.

“Torni Amancito?” Le aveva chiesto ironizzando Estrela quella mattina
“Certo…Perché non dovrei?” Le aveva rimbeccato, tutt’altro che leggiadro, Esteban.
“No, te lo chiedo perché vorrei cambiare le lenzuola” Aveva rilanciato, feroce, la ragazza.
“Lascia le stesse” Aveva troncato lui, accigliandosi.
Non aveva sognato braccia al collo o imprevisti e consolatori appoggi, ma almeno avrebbe avuto desiderio di non esser canzonato. Non ora, non prima dell’Eminenza…
“Ma forse Estrela non si rende conto…”. Si era quindi rassicurato, infilando la calle in direzione del suo incontro.
“…O forse si rende conto fin troppo bene”. Gli era rimasto il dubbio.
Poi il pensiero consolatorio era scivolato di nuovo a quell’amore fisico che non bastava più a Esteban Labruna, pur appagandolo al punto da non sentir bisogno di altre scorribande, ma che in fondo rappresentava una parte sola di quell’appartenenza reciproca di cui voleva, come pulsione in lui nuova, che quell’amore si nutrisse. C’era il letto di Estrela, c’era quel dialogo contraddittorio e conflittuale, così vivo, così sensuale; c’era però dell’altro. Che a Esteban Labruna sfuggiva. Una parte di anima della donna bellissima che amava e che non aveva proprio colto e che non finiva, anche in quella mattina di agitazione, di rendere sconcerto le sue certezze.
“Torni Amancito?”
“Cazzo se torno. Torno. Torno. Torno”.
In quell’istante senza rendersene conto, Esteban Labruna, prese a strizzare gli occhi ogni manciata di secondi, come a irrorare occhi asciutti e fastidiosamente spalancati. Istinto di cui ebbe la percezione solo dopo un’ora, mentre camminava spedito alla volta della curia. Non gli capitava mai, non erano bisogni, ne atteggiamenti, di cui aveva conoscenza. Pensò che molte cose stavano cambiando. Definitivamente. E che quella non era che l’imprevista reazione di un corpo che ora si metteva davvero al servizio di un cuore. Di un’anima. Giusta o sbagliata che fosse la ragione che lo spingeva.

“Non c’è da aver paura ora Esteban. Non devo piangere sulle conseguenze delle mie scelte. Ho bisogno di tutto me stesso”. Così si ripeteva il giovane Labruna nello stanzone, seduto sulla panca di legno, mentre faceva anticamera all’eminenza. Non aveva mani sudate, ne somatizzazioni esplicite delle sue paure. Solo agitazione e voglia di essere altrove. Tanta voglia.
Così si perse a osservare quelle pareti bianche, coperte solo da vecchi dipinti di prelati e alti membri delle gerarchie ecclesiastiche catalane. Volti scavati spesso; arcigni sempre. Come potesse Dio albergare in quei visi, fra le pieghe di quelle espressioni innaturalmente aristocratiche, in quelle vesti nere come la pece, dai colli a volte pomposi e civettuoli, era una domanda che Esteban aveva cominciato a porsi pochi mesi prima. Al contatto con la sua “Eminenza”, ma soprattutto con quella croce argentea che gli pendeva dalla catena al collo. La magrezza ossuta di quell’uomo, aveva pensato la prima volta, non prometteva nulla di buono; così come quel naso adunco che pareva una vela tirata e tesa al vento del golfo catalano.
Il bianco di quelle pareti era fresco di mano, velocemente dato. Come a coprire in fretta e furia, inserzioni muffose secolari in quell’edificio, ma su quel punto della propria immaginazione l’architetto stette, rendendosi conto di essere sul cammino dell’esagerazione. Il vero problema, forse, non erano quei volti nei ritratti, ne i loro abiti, ne tantomeno le loro pose, o quel bianco. Il punto erano le sue paure, adesso. Pensò, in quell’interminabile anticamera, che è in quelle circostanze che i veri “ribelli” si vedono. Quando l’inevitabile gli presenta il conto del loro, presunto, coraggio. Giacché non esiste coraggio al momento dell’azione, ma solo al momento di quel subire, che potrà essere immediato o differito, ma che ne rappresenta naturale conseguenza.
Sulla parete di fronte, poi, il giovane Labruna non poté non notare un imponente ex voto incorniciato e appeso in bella vista fra tutte quelle angoscianti figure. Qui, incorniciata, si trovava l’amata bandiera catalana a sottili strisce orizzontali giallo-rosse, sormontata da una spessa croce d’oro e una scritta al di sotto. In caratteri dorati su sfondo a strisce azulgrana : “Els catalans a Nova York, per la fe de la seva mare pàtria català” c’era scritto.
Fu una visione che gli diede forza, ma non per ragioni nazionalistiche, o di devozione alla propria patria come ebbe a credere lui stesso, in un primo momento. Semplicemente perché innestò nella sua mente concentrata e viva, un seme solo apparentemente invisibile. Come un’idea che sorge piano, ma comincia a erodere preclusioni e preconcetti. E a farsi largo.
Poi lo stesso “bassotto” con le lunette che lo aveva avvicinato al cantiere per dargli appuntamento, comparve dietro la pesante porta.
“Prego signor Labruna, si accomodi. Sua eminenza l’aspetta” Disse, quasi sussurrando con un sorrisetto angosciante. Esteban si mosse.

“Bene signor Labruna, andiamo male. Molto male. Lei lo sa. Vero?…” L’alto prelato lo aveva fatto entrare dopo oltre un’ora di attesa. Si fece trovare in piedi dietro la sua pesantissima scrivania di mogano intagliato, con la solita espressione perentoria. La croce era rimasta ferma al centro del suo ventre inconsistente, sotto quella veste orrenda.
“…No, non dica nulla. Non ho voglia adesso di ascoltare la sua voce – lo aveva interrotto bruscamente, senza fargli proferire parola -. Mi da ai nervi. Ho voglia solo di parlare. L’ultima volta Labruna sono stato troppo indulgente con lei. Lo so…Lo riconosco.. E’ un mio difetto. D’altra parte sono un uomo di chiesa e per noi, nella nostra posizione, è sempre molto difficile indugiare in atteggiamenti aggressivi…”
“Io...”
“Stia zitto! Deve stare zitto! – lo aveva interrotto al solo prender fiato, prima di parlare - . Ci sembra sempre di andare contro ai precetti verso i quali abbiamo giurato obbedienza e fedeltà, come tramite della nostra ascesa verso Dio. Nondimeno alcune volte, questa diventa vanagloria. Quando pretendiamo di rimanere ossequiosi ad esse, nonostante la nostra natura umana. In sostanza, Labruna: siamo uomini. Dio ci ha creato così e ci mette alla prova ogni giorno. Ogni giorno…Qualche volta le nostre pulsioni, anche le più insane, sono vinte. Alcune volte, troppe volte, no e diventiamo…Torniamo a essere uomini fra gli uomini.
Ora può parlare architetto, ma per rispondere solo alle mie domande. Non voglio sentire altro da lei. Mi dica, ora: preferisce che le parli da uomo, o da uomo di chiesa?”
“Non so, eminenza…Non so. Immagino che lei già sappia…” Esteban era rimasto in piedi a due metri dalla scrivania. Rigido, serio, deciso.
“Sento che la sua impertinenza non l’abbandona, ragazzo mio. Ma in fondo ha ragione. Io già so e so che devo parlarle da uomo. Dio forse lo vuole”.
Poi si fermò, sedendosi e incrociando le braccia sul ventre, con i gomiti agli imponenti braccioli.
“Allora Esteban. Dov’è finito Antoni Gaudì?”
“Non lo so”.
Il prelato allora apri uno dei suoi cassetti e ne trasse un plico. Lo aprì, s’inumidì le labbra e quindi lesse.
“Hotel ristorante Mondragon. 12mila e 173 Pesetas…Vorrei capire Labruna come possa un giovane come lei, che ha casa, spendere così tanto in alberghi e ristoranti…Le ripeto la domanda: dov’è finito Antoni Gaudì?”
“Eminenza, le giuro che…”
“Bodega Quitoz. Bodega Irureta. Bodega de Los Diablos…Interessante questo nome…Totale: 17mila e 154 Pesetas…GAUDI?”
“Non lo so, è la verità”
“Questa è formidabile: sarto Abel Munoz, 8mila e 72 Pesetas. Lei, il figlio di un sarto. Se suo padre potesse vederla. Meno male che non può…Mi dica: quanto guadagna lei al mese al cantiere? Quanto NOI abbiamo stabilito guadagni?”
“830 Pesetas al mese, eminenza”
“Uno stipendio da architetto vero. Ma lei non è un architetto vero…LEI ERA LI’ PER ANTONI GAUDI’…NOI CE L’ABBIAMO MESSA!”
“Sì, ma io non l’ho più visto da quando l’ho riportato allo studio”.
“Bugiardo infame!”
“Eminenza…”
“Non esiste un eminenza ora, qui. C’è solo un datore di lavoro che lei sta tradendo. Che ha già tradito. Cominceremo con le piccole cose, Esteban Labruna. I conti che le ho detto non verranno saldati. Da domani lei è un uomo fallito. Si dimentichi della vita precedente, si dimentichi del lusso, delle sue donnacce, dei viaggi e della cerveza…Si dimentichi! Si dimentichi!”
“Va bene. Ma io non so dov’è il maestro Gaudì”
“No, lei lo sa! Lo sa! Perché è da giorni che non si fa vedere al cantiere; è da giorni che finge solo di tornare a casa, per poi uscire come un ratto quando nessuno la vede..E’ da giorni che appare e scompare. Questa cosa è inaccettabile e la pagherà cara”.
“Come posso farmi credere?” Esteban fu abbastanza lucido da simulare paura vera, imbarazzo.
“Lei non deve farci credere nulla. Lei deve portare risultati. Subito! SU-BI-TO. Non abbiamo più tempo per aspettare… E neanche lei ne ha. Ora non ha più un soldo, nemmeno credibilità. Ha solo la scia dei suoi creditori che domani verranno a cercarla. Mi porti Gaudì subito”.
Esteban pensò al letto caldo di Estrela, alla sua casa, al suo rifugio. Lo fece per farsi forza, per non indugiare. Per quanto, se si fosse lasciato andare, forse non avrebbe avuto davvero bisogno di simulare paura.
“Ma dove posso cercarlo? Io non so come sia sparito.. Chi l’ha portato via. Magari ha capito ed è scappato- il suo tono cercò di farsi confidenziale -..Magari è stata tutta una farsa per levarsi da ogni impiccio. Forse ora sta ridendo di noi, del cantiere. Cosa posso saperne io? Io ho fatto quello che dovevo. L’ho raccolto in stato confusionale, l’ho riportato allo studio, ho cercato di evitare uno scandalo, come avreste fatto voi eminenza. O no?”
“Quello che avrei fatto io non la riguarda e non può saperlo. Ma a me non importa, come ha agito lei è sospetto Labruna, molto sospetto come può essere un uomo che è pagato profumatamente per agire, per sapere…”
“Per fare la spia, brutto verme” Pensò l’architetto, all’ennesimo strizzare di palpebre.
“..Per riferire. E invece non ha fatto e non ha saputo niente. La fiducia nei suoi confronti adesso è nulla. Lei come minimo è uno stupido lascivo. Ma l’avverto: io non sono tanto convinto che lei sia così… Io credo che lei stia tramando qualcosa. Probabilmente gira tutto intorno al danaro, allora adesso sappia che di soldi non ne ha più e non solo…”
Esteban, in piedi, rigido come un palo, chinò furbescamente il capo.
“Lei non può sapere. Non sa che io non sono da solo. E devo rendere conto a persone più importanti di me. Gente che non scherza, Labruna. Che non agisce per conto di Dio, ma solo per quello: per il denaro…Le auguro che si accontentino delle sue parole, delle sue chiacchiere. Glielo auguro, ma sinceramente non lo credo”
“Quali altre persone?” Fece Esteban sinceramente stupito.
“Non le interessa. Le interessa che io non potrò riferire altro che quello che penso. Cioè che lei sa molto di più e non lo vuole dire..”
“Lei si sta sbagliando, Eminenza. Sta facendo un grosso errore. Io non so proprio nulla… Se quello che dice è vero, sta mandando alla forca un innocente. Davvero”.
“La forca Esteban? Esistono cose peggiori della forca, lo sa? Esiste l’annientamento sociale, forse anche fisico. Assoluti. Esistono vite mutilate…Accetti un consiglio, si protegga ora: mi dica dov’è Antoni Gaudì”
“Non lo so. Lo sapessi…In questi giorni potrei impegnarmi ancora di più, questo potrei fare. Potrei impegnarmi ancora di più…”
“Non basta Labruna. Ci vogliono cose concrete. Fatti”
“Lo so, lo so…Potrei almeno sapere da chi devo guardarmi, eminenza? Potrei?”
“Non glielo posso dire, Esteban.. Le dico solo che il cantiere muove molti soldi. E i lavori sono troppo lenti. Troppo. Lei non ha bisogno di sapere altro. Segua i soldi Labruna…Segua Gaudì, anzi: me lo porti. Risolverà tutti suoi problemi. Di soldi, di futuro. Lei vuole un futuro in questa città, Labruna?”
Esteban chinò il campo in segno di assenso.
“Bene, allora faccia qualcosa. Sappia che se Gaudì per noi rappresenta un simbolo insano e fallace che va privato dell’aurea di santità che il popolo gli sta disegnando attorno, per alcuni è solo uno strumento ormai vecchio. Che non serve, che è diventato anzi dannoso per un cantiere che non procede e prosciuga molte casse. Non solo quelle della curia che io rappresento.
I soldi per noi sono solo un strumento per permetterci di sopravvivere in tempi troppo inquieti, anche politicamente. Ma per molti il denaro è una ragione di vita.
E’ da questi, ora, che deve guardarsi Esteban. Lo faccia per se stesso, per il suo futuro. Io solo questo posso dirle adesso. Conoscevo suo padre, sin dai tempi dei miei voti. Era una brava persona, un uomo umile e molto capace, discreto.
Le dico questo non perché lei se lo meriti, lei non vale un unghia di quell’uomo. Glielo dico per quell’antica amicizia che mi legò a suo papà”

Un’antica amicizia nata dalla scoperta di foto sconce, beffardamente comparse sul pavimento di una sartoria catalana d’inizio secolo, fiorita sulla riconoscenza, affermatasi sui silenzi operosi di un sarto dai capelli e dalla barba bianche, sedimentatasi sul ricordo d’interminabili pomeriggi a provare e riprovare abiti talari, sempre più lussuosi e importanti negli anni. Un amicizia che per Pablo Labruna non fu mai davvero tale, nell’ambizione del sempre meno giovane prete e in quella sua insana tendenza all’arroganza che resero i silenzi del sarto ben più significativi nei lustri. Più volte Pablo Labruna si era domandato negli anni se avesse fatto bene a non stroncare la giovane carriera ecclesiastica di quell’individuo magro e inquietante. Più volte, altrettante volte, la risposta che si era dato era il frutto del proprio carattere. Mite, equilibrato, pragmatico.
“Chi sono io per decidere se quest’uomo ha lo spessore, la dirittura morale per arrivare dove sta arrivando?”
Ne aveva quindi osservato le movenze sempre più altere, gli atteggiamenti sempre più distaccati, i gesti sempre più innaturalmente generosi, come se non fossero mai il frutto rigoglioso di una pace e di una vocazione interiori, ma lo stridente getto di una scelta fin troppo lucida. Quella di essere pio, perché quello era il “vestito” che gli era richiesto.
Pablo Labruna “Manos calificados” non lo biasimò mai davvero, solo che per vent’anni si domandò da uomo sinceramente timorato di Dio, perché fosse stato scelto proprio quel sacerdote. Per scalare le vette della curia, per intraprendere una carriera che sembrava davvero non avere limite. Nel potere, nel prestigio, nel tempo.

“Le dico una cosa ora Esteban…- Aggiunse infine l’eminenza- Tanti anni fa, suo padre Pablo, si mostrò gentile e indulgente con me. Poteva non esserlo. Oggi io gli restituisco quel gesto e la lascio andare senza conseguenze che non quelle di farla diventare povero, come merita. Le dico di portarmi Antoni Gaudì, glielo chiedo come amico, ma immagino che non lo farà… Quindi l’avverto, non è più da me che deve guardarsi. Io non farò più nulla per lei. Nel bene, nel male. Con questo il debito con Don Pablo, suo padre, è saldato”.
“Sta bene, eminenza”
Esteban Labruna dopo un breve cenno del capo si girò e se ne andò senza voltarsi.
Attraversò gli ampi saloni della curia con le loro innaturali pareti bianche, non badò ai pomposi e inquietanti dipinti dei prelati, dimenticò quel luogo che gli era parso aggredirlo ogni volta che ci era andato. Sentì come un peso che si sgravava, come una pietra, rimasta troppo tempo, al centro del petto, che finalmente scendeva fino alla pancia per prepararsi ad essere espulsa. Respirò come di liberazione, bloccò il pensiero sulle ultime parole dell’eminenza.
Dimenticò, per un attimo, tutto ciò che d’inquietante era emerso da quella conversazione quasi surreale, dove era sgorgata quella parvenza di umanità da parte di un uomo che sembrava non averne, sull’onda emotiva, impercettibilmente passionale, di quell’antica amicizia con suo padre.
Poi il suo stato d’animo planò dove era germogliata un’altra serie di pressanti paure. Ancora più ignote, ancora più attanaglianti.
Qualsiasi cosa avesse deciso di fare, avrebbe dovuto farlo presto. Giunse a questa conclusione, mentre infilato l’ultimo porticato, si tuffò nel sole di quella solita Barcellona calda e accogliente. Rimase fermo un attimo come a volersi godere quei raggi che gli toccavano la fronte, quindi corrucciando le sopracciglia folte, girò lo sguardo verso sinistra, verso il poderoso monumento che si stagliava al centro del cortile e alla sua ombra che si allungava fin quasi a toccargli i piedi. In mezzo a quella, appoggiato schiena al piedistallo, c’era Guillermo con la sua moto, rovinata a terra.
Lui lo guardava e sorrideva.
“Beh, sei ancora vivo Esteban? Noi pensavamo di dover entrare con il mezzo e venirti a salvare”
“Sono ancora vivo Guillermo. Ma ho bisogno di scrivere”
“Cosa, una poesia?…Ti abbiamo fatto venire voglia di cimentarti eh?”
“No, devo scrivere una lettera. Anzi, mi dai un passaggio fino dove ti dico io?” Domandò avvicinandosi.
“Certo. Dovunque tu voglia. Via lenta o via veloce?” Rilanciò il pittore, mentre sollevava la pesante motocicletta con una facilità disarmante.
“Preferirei la via più sicura”
“La via più sicura non esiste, caro Labruna. E’ solo la velocità che, accorciando idealmente gli spazi e i tempi degli spostamenti, fa diminuire il rischio di sinistri”
“Tu vaneggi Benitez, lo sai?”
“Lo sappiamo che tu lo pensi”
Saltò in groppa alla motocicletta di Guillermo, chiuse gli occhi. “Cieco” diede indicazioni al centauro su dove potesse lasciarlo. Giusto a due isolati dalla casa di Estrela, solo per un eccesso di prudenza, anche se ormai capiva che di Benitez de Alphonsine poteva fidarsi e avrebbe potuto fargli tranquillamente vedere dove dormiva da giorni.
Il viaggio attraverso Barcellona fu l’ormai solito turbinio scoppiettante di polvere sollevata, bestemmie di passanti e automobilisti quasi investiti e angoli di case sfiorati. Ma Esteban non ci badò come la prima volta sulla costa catalana. Aveva altro a cui pensare, ancora gli rimbombavano nelle orecchie le parole dell’eminenza. Ancora capiva nelle mani di chi, ora, fosse passata la “pratica” del suo maestro Antoni Gaudì. Banchieri, imprenditori, speculatori di ogni livello avevano, con il tramite degli ignari gesuiti, finanziato quel cantiere, quell’opera dedicata a Dio.
Qualcuno di loro, probabilmente tutti, giudicò, non tolleravano più alcun ritardo nell’innalzamento della struttura. “I soldi – si disse Esteban avvinghiato a Guillermo sulla moto rossa - ..Sempre quelli. Al centro della mia vita, della vita di tutti. Anche di Don Gaudì. Suo malgrado, malgrado la sua grande anima, il suo talento. Sono come lo scolo di lavandino…I soldi attirano, fagocitano e ingoiano tutto ciò che c’è di umano. Io lo so bene”
Da quel giorno Esteban sarebbe stato povero. Se ne rese conto sulla moto di Guillermo, non ebbe paura di quello. Provò solo l’inquietudine di chi si affaccia a una nuova vita e non sa davvero cosa lo aspetta. A 23 anni, il giovane Labruna, aveva azzerato tutti i propri valori e i propri mezzi. Economici, morali, sociali. Cosa gli rimaneva? Una donna che non poteva essere la sua, un nuovo amico a metà fra il pazzo e il talentuoso, un maestro troppo importante da salvare. Poco prima dell’arrivo a destinazione si disse che comunque avrebbe potuto ripartire da se stesso, una volta che tutto fosse finito. Una volta che Don Gaudì fosse stato al sicuro, che avesse chiarito il proprio futuro nel letto di Estrela. Breve o lunghissimo che potesse rivelarsi.
Poi Guillermo frenò bruscamente, si alzò gli occhialoni sulla fronte e sorrise.
Così visto, poteva sembrare persino bello, se non fosse stato per quella cicatrice ancora rossiccia che gli solcava la guancia destra, come una serpe errabonda.
“Labruna, ricordati che stasera è LA SERA. Il maestro domani continua il suo giro per Madrid. Se vuoi parlargli devi farlo stasera. Passerò da te dopo cena, fatti trovare pronto..Va bene qui?”
“Sì, va bene in questo posto. Ci sarò” E si avviò con passo veloce verso il suo rifugio.

“Ah sei tornato? Bene” Gli sorrise la ragazza portoghese tutta agghindata
“Sì, e tu che fai? Ti prepari a far serata?” Rilanciò lui ancora arrabbiato per la cattiveria inopportuna di quella mattina.
“No, vado al bagno turco. Da quando sei qui non ci sono andata una volta, ho voglia di prendere aria”. Fece lei ondeggiando leggermente, come a farsi meglio ammirare. Un gesto di civetteria che le calzava bene.
“Brava, vai: io ho da fare…” Tagliò corto Esteban quasi arrogante, ormai di nuovo sereno “Anzi, volevo chiederti se avevi della carta da lettera”.
“Se scrivi ricordati di tutte le parole. Tieni ben aperti gli occhi..” Rilanciò ironica la ragazza.
Esteban scrisse a fatica, in uno spagnolo macchinoso, tipico di chi non era avvezzo alla scrittura, alla composizione prosaica. Scrisse di getto, con la foga frustrante di chi vorrebbe argomentare, spiegare, agire velocemente, ma è costretto dai propri mezzi limitati a glissare, ripensare, rallentare la propria azione.
Esteban scrisse però, con la lucidità che non aveva mai avuto, con il periodare macchinoso eppur fluido di chi non è avvezzo a comunicare. Sensazioni, speranze, paure finanche.Un periodare che si assestava, mano mano che la sua lettera prendeva corpo, passando dal suo ingegno, alle sue pulsioni. Scrisse di getto, con qualche errore ortografico, in uno spagnolo che alternava maniera a volgare, istinto a nozioni tecniche chissà come assimilate. Nelle discussioni con gli scrittori sulle ramblas, piuttosto che sulle brochures distribuite all’entrata dei varietà. Ci volle poco, in fondo, solo agganciare il proprio desiderio più pressante alla propria testa. Senza filtri.
Estrela lo osservò di nascosto qualche minuto dalla porta socchiusa, senza timore di essere scorta. Un po’ stupita, un po’ ammirata, come una mamma che spia il proprio bambino, alle prese con i primi giochi solitari, seduto per terra. O come si guarda una persona che si avvia a diventare quello che non è mai stato. A prender forma di uomo adulto che si cimenta in azioni e volontà non più da ragazzo dissoluto.
Alla sua lettera, infine, pensò mancasse qualche indicazione fondamentale. Giudicò che sarebbe bastato verificarla e prepararsi, prima di inviarla; stette così, sul pensiero di Guillermo che lo avrebbe atteso all’ora dell’appuntamento.

“Il nostro maestro è in ritardo – disse Guillermo, seduto sulla sua moto appena vide comparire Esteban, al luogo dell’appuntamento serale – Ha accumulato un ritardo di ore, sin da questa mattina sul programma delle visite a Barcellona. Gli abbiamo detto che era assolutamente indispensabile che ti parlasse. Ma dobbiamo aspettare qualche ora…”
“Qualche ora? - Fece l’architetto sconcertato - Ma sono già le nove di sera. A notte fonda avrà voglia di parlarmi, di ascoltare?”
Benitez rise grasso e poi aggiunse : “Notte fonda eh.. Non ci sono problemi. Non credo che lui riesca a dormire più tre ore per notte. Dice che dormire è tempo sprecato e che anche la notte è stata fatta per agire, pensare, progettare. Noi siamo d’accordo con lui. La notte è inutile, se non si sta svegli… Piuttosto Labruna, dobbiamo trovare il modo di ammazzare il tempo. Hai in mente qualcosa?”
“Certo che ce l’ho. Devo andare a verificare una cosa. Ti piacerebbe fare un giro al porto?”
“Ti portiamo volentieri. Cosa devi fare?”
“Lo capirai quando saremo là”.
“Naturalmente non mi dirai cosa c’è in quel sacchetto”
“E’ inutile che te lo dica amico mio. Lo vedrai” I due si sorrisero.
Guillermo Benitez de Alphonsine, dopo aver di nuovo calato i suoi occhialoni da aviatore sulla fronte, scaricò tutto il proprio peso sul piede destro, diede di manopola, e quel marchingegno rosso fuoco cominciò a rombare e sobbalzare. Di nuovo. Per la prima volta a Esteban quell’immagine non mise paura. Anzi. Benitez gli sembrò davvero un cavaliere d’altri tempi, come un mercenario pesantemente bardato, cooptato alla sua protezione. Fu un pensiero rassicurante e ingiusto, si disse, mentre cavalcò la moto alle spalle del compagno.
Ma Guillermo non era un mercenario, non era cooptato. Era un uomo d’istinto, di feroce abnegazione, di coraggio insano. Un uomo, un artista strampalato, che non era stato “cooptato” da niente e nessuno, perché nulla poteva costringerlo ad alcunché. Aveva sposato la sua causa, semplicemente. E lo aveva fatto d’istinto. Troppo complicato sarebbe stato, infine, capire cosa poteva averlo spinto a questa pericolosa dedizione il giorno prima, mangiando susine sulla spiaggia, dopo l’ennesima folle cavalcata fra le curve della costa catalana. Esteban si disse che comprenderlo non faceva parte delle proprie facoltà e che a nulla sarebbe servito chiederlo con un semplice: “Chi te lo fa fare?”. Ebbe la sensazione che Guillermo non voleva gli fosse chiesto, perché il chiederglielo avrebbe in lui suscitato pensieri insani, inadatti al suo agire d’impulso. Chissà, valutò mentre il mezzo guidato da quel centauro sfregiato aumentava la velocità, forse quella semplice domanda lo avrebbe offeso o lo avrebbe, peggio ancora, indotto a valutazioni del proprio impegnarsi troppo ardimentose per la filosofia di vita alla quale si era votato.
Quindi non chiese. E mentre la moto scendeva verso il porto di Barcellona, si limitò a studiare, ricordandole, le espressioni del suo nuovo amico, subito dopo averlo messo al corrente del proprio impegno verso Antoni Gaudì. Giudicò di essere stato fortunato e di aver visto giusto, nel confidarsi con lui.

Mentre il sole dell’una picchiava forte sulle loro teste e la moto rossa di Guillermo si arroventava in sosta, il poeta pittore aveva ascoltato con un sorriso inquieto, fissandogli quegli occhi azzurri addosso senza per questo metterlo in imbarazzo. Il centauro, mentre Esteban spiegava non senza un po’ di vergogna il motivo di quella visita, lo aveva interrotto una sola volta:
“Gemelli metalli.. ti piace davvero?”
“Sì..Io non ho cognizione di arte, non sono così esperto come ho voluto farti credere. Ma quel quadro mi da emozione. Credo che, proprio per questo, posso dirti sinceramente che mi piace davvero”.
“Bene. Ve lo regaliamo lo stesso e abbiamo intenzione anche di aiutarti per quello che riguarda il tuo maestro…Abbiamo un maestro anche noi. Anche noi faremmo di tutto per salvarlo. Non importa chi lo minacci, proprio non importa Esteban…”
Così il giovane architetto era andato avanti a raccontare e aveva spiegato di che natura poteva essere l’aiuto che gli chiedeva. Aveva parlato calmo, buttando lo sguardo ogni tanto verso il mare della Catalogna, verso i pescherecci ritardatari che in lontananza rientravano dopo la pesca della notte, verso i pochi bagnanti sugli scogli, verso un orizzonte che sapeva, anche se questa cosa non poteva piacergli, non poter essere così profondo come aveva sperato. Per Don Gaudì, principalmente. E poi per se stesso. Ora che amava sul serio, adesso che aveva abbandonato una vita di stravizi e lussi che aveva rischiato di renderlo un vegetale, prima ancora, o al posto, di essere diventato un uomo. Di sé, non per uno slancio di eroismo romantico che nemmanco sapeva cosa potesse essere, gli importava poco in quel momento. Ma aveva bisogno di aiuto per qualcuno di molto più importante…
“Guillermo, lei mi aiuterà allora?…Ho bisogno di incontrare il suo maestro. Ho la necessità che mi ascolti, che mi dia appoggio, in qualsiasi forma lui creda. Sarà possibile? So che sarà in città domani…”
“Sì, sarà qui. Inizialmente avrebbe dovuto dormire da noi, ma poi ha deciso di appoggiarsi in un albergo del centro. Ci siamo offerti di portarlo in giro, ha preferito fare da solo. Ma questo favore ce lo deve lo stesso…Per quello che stiamo facendo qui, in Catalogna, per il nostro movimento. Ce lo deve proprio. Appena tornati scriveremo un biglietto da lasciargli in albergo. Gli spiegheremo di questo “aiuto” di cui ha bisogno Antoni Gaudì, per il tramite del suo più caro amico…”
“Io non sono il suo più caro amico…”
“Oh Esteban Labruna. No so se sei più ingenuo o più furbo– sorrise bonario Benitez –. Tu sei davvero il suo più caro amico. Anche se Don Gaudì non lo sa…”
Poi ci fu silenzio. Quindi Guillermo dettò alcune istruzioni strategiche al suo compagno di viaggio. Come avrebbe dovuto presentarsi all’italiano, maestro d’arte e di pensiero, quindi spiegò che le ore migliori per incontrarlo sarebbero trascorse nella sera successiva. Labruna prese nota mentalmente e non obiettò su nulla. Solo una cosa finì per farlo vergognare un’ultima volta e sconcertarlo nel suo sincero pudore.
“Il maestro è l’uomo più intelligente che io conosca –aggiunse quasi sussurrando Guillermo, mentre i suoi occhi azzurri si puntavano per la prima volta verso il mare – Non mentirgli come hai fatto con me. Non esistono scorciatoie. La via più breve e diretta, la più veloce con lui, è sempre la migliore. Anzi l’unica”
Esteban chinò il capo e annui. “Sempre la velocità eh..” Aggiunse consapevole
“Un’ultima cosa Labruna: quando ti rivolgerai a lui chiamalo “Eccellenza”… Non lo ammetterà mai, ma a lui piace”

In quella sosta al porto di Barcellona quella sera Esteban fu veloce: entrò con passo risoluto in una bianca palazzina dal vago stile coloniale, che spiccava per vivacità di luci alle finestre. Ne uscì circa mezz’ora dopo, infilandosi un plico nella tasca interna della giacca. Sorrideva di un sorriso strano, come quello di una persona che si leva un peso e, nel farlo, prova anche dolore.
Nella sua ruvida e caustica percezione, Guillermo lo giudicò come il sorriso interdetto di chi ha mal di denti, mentre si siede sulla sedia del dentista.
“Poi mi spiegherai cosa siamo venuti a fare qui?”
“Certo, ti dirò tutto”.
“Bene. Io direi che è l’ora. Andiamo all’albergo del mio maestro. Tieniti forte, ho voglia di correre”
“Guillermo, posso chiederti una cosa?”
“Chiedi”
“Da due giorni ho sempre la sensazione che giochi ad accumulare ritardi, per poi correre. Mi sbaglio?”
“No, Esteban. Non ti sbagli. Se non c’è bisogno di essere veloci, questo bisogno lo creiamo. Ci aiuta a essere noi stessi”.
Esteban scosse la testa, mentre si appoggiava alle spalle possenti di Benitez e lo cingeva in un abbraccio di ritrovata inquietudine, per il sospetto di un’altra gimcana fra le calli di Barcellona.

“Guillermo Benitez de Alphonsine!”
“Eccellenza, grazie per essere qui”. Il pittore si era avvicinato con occhi luminosi e mano destra protesa a quella figura vivida e magrissima che sedeva, gambe accavallate, su un’ampia poltrona di velluto verde. Il soggiorno della suite era illuminato a giorno. Nella stanza, una leggiadra figura femminile dal capello “alla maschietto”, armeggiava di spalle al mobile bar.
La stretta di mano, nonostante il maestro non si fosse alzato, fu energica da parte di entrambi. Esteban rimase in piedi a osservare la scena.
L’italiano con i suoi baffetti ben curati teneva elegantemente nella destra un boulon di cognac appoggiato al bracciolo della poltrona. Il suo piede destro si agitava freneticamente.
“La visita a Barcellona è stata proficua – lanciò subito, in uno spagnolo chiaro – il nostro movimento qui è ancora in crescita. Quanto di questo lo si deve a te, me lo spiegherai domani mattina con calma…”
“Maestro questa città è ancora ricettiva. C’è ancora molto da fare, anche se molto è stato fatto”
“I tempi giocano a nostro favore, Benitez. Il cambiamento che è in atto gioca a nostro favore”
“Non tutti i paesi sono l’Italia, Eccellenza”
Esteban si stupì di quel modo diretto e vagamente impertinente di porgersi da parte di Guillermo che si sarebbe atteso più sussiegoso in quel veloce scambio di battute.
“Il pelato in Italia sta facendo grandi cose, lo sai Benitez. Per questo nel mio paese c’è meno da fare che nel resto dell’Europa. Per questo ho la possibilità di viaggiare”
“Per nostra fortuna Eccellenza”
“Per la fortuna del movimento. Molti si dimenticano che il nostro non è solo un manifesto, ma tante altre cose” La voce dell’italiano coi baffetti arrivava chiara, stridente, perforante, quasi di femmina irritata. Le sue parole erano scandite in uno spagnolo semplice ma efficace, in un periodare ritmico, che trasmetteva certezze, determinazione. Assenza di dubbi.
Gli occhi dell’uomo che un ventennio prima aveva concepito un nuovo modello di pensiero artistico, che aveva canonizzato una nuova filosofia di approccio al reale, innalzando, o secondo i suoi detrattori, abbassando il livello della percezione ai parametri emergenti del nuovo secolo, sedeva davanti Esteban, senza degnarlo di uno sguardo. Non per supponenza, od ostentazione di forza. Forse solo perché era preso, trascinato, dalle sue stesse parole su un palcoscenico che considerava solamente proprio. In qualsiasi situazione, di fronte a chiunque.
Fu questa la sensazione sconcertante che ne trasse Labruna.
Il maestro di Guillermo era un uomo che si considerava sempre un passo avanti agli altri e probabilmente lo era. Senza la necessità di nasconderlo per vanagloriosa umiltà.
Si ricordò in quei minuti di silenzioso studio le parole del suo nuovo amico il giorno prima…

“Alcuni dicono – gli aveva spiegato in confidenza Guillermo, mentre addentava un’altra susina sulla costa assolata - che il maestro ora sia un uomo stanco. Che ha indagato abbastanza ed esaurito la sua missione, riuscendo a reclutare adepti che seguano il manifesto. Io non lo credo. Il nostro movimento è ora cento volte più forte di cinque anni fa…Credo, invece, che l’Eccellenza ora sia già passato oltre, sia già diretto verso altri obiettivi. Per conto di cosa o di chi non è poi così difficile immaginarlo. Basta vedere cosa sta succedendo in Italia…”

L’Italia. Ad Esteban non suscitava nessun pensiero particolare. Nessuna sua corda vibrava a quel nome di nazione. Il riferimento di Benitez era quindi caduto nel nulla: se in Italia stava succedendo qualcosa di “epocale” , al giovane Labruna non interessava. Non importava dei cambiamenti in corso in Europa, nel mondo. Non ne aveva conoscenza, non potevano interessare, in fondo, a un “finto” architetto che solo qualche giorno prima aveva sposato per la prima volta una causa. Una causa che fosse diversa. Dalla lussuria, dal godimento di corpo e di mente. Dallo sfrenato divertimento.
Ora però Esteban, in piedi alle spalle di Guillermo rimpiangeva di non essere un uomo colto. Si sentì ancora più piccolo di fronte a quel dialogo che spaziava velocemente dalla politica, alla pittura, dalla prosa, alla poesia, in uno snocciolare di nomi italiani, francesi, spagnoli che Esteban riconosceva solo per assonanza o peggio, per averli sedimentati nel ricordo involontario di accese discussioni a un tavolo delle ramblas. Un tavolo certamente diverso dal suo. Provò vergogna per i suoi 23 anni da “minus habens”.
Pochi minuti dopo l’italiano coi baffetti alzò lo sguardo. Finalmente.
“E questo tuo giovane amico? – Rese ancor più acuta la voce – Che cosa possiamo fare per lui?”
“E’ una persona fidata, Eccellenza. Un giovane che merita attenzione, crediamo. Se non altro perché ha una storia molto strana da raccontarle”
Il maestro di Guillermo sorrise e sussurrò al suo “discepolo” maliziosamente:
“Sarà. Per quanto molto di lui dirà il modo con il quale viene a dirci”. Poi alzando il tono e rivolgendosi all’architetto, disse: “Sentiamo signor…?”
“Labruna, mi chiamo Esteban Labruna. Sono un architetto, maestro” Fece il giovane avvicinandosi di qualche passo.
“Che magnifica terrà la Catalogna! – Proruppe un po’ sopra le righe l’italiano –Terra di pittori e di architetti…Mi volto e vedo un pittore, mi giro verso di voi e conosco un architetto. Un altro. Sembra che questa terra sia una terra di grandi talenti. Siete gente di ispirazione voi catalani. Non avete paura di sperimentare. Di osare. La gente giusta per me, anche se qualche volta non condivido le vostre idee. Mi sento come a casa…”
“Io sono un piccolo architetto, Eccellenza. Ma ho avuto l’onore di lavorare al fianco del più grande di tutti”.
“Antoni Gaudì” Sussurrò Benitez all’orecchio del suo maestro.
“Ah Gaudì” Fece portandosi il boulon alle labbra
“Sì, Eccellenza. Antoni Gaudì è il mio maestro”
“Mi hanno detto questa mattina che non sta bene”
Esteban si morse il labbro impercettibilmente, mandò un’occhiata d’incertezza a Guillermo, che lo ricambiò con un sorriso sereno.
“Sì. Non sta bene. Volevo parlarle proprio di questo e di altre cose e volevo..Volevo ringraziarla per il suo tempo”
“Il mio tempo non è così prezioso come si può credere, giovane architetto. Per come la vivo io la vita, ho sempre teso a raddoppiarlo. A moltiplicarlo…Non è solo una questione di velocità di azione o di rifiuto del sonno. - Sorrise esplicito - Forse è solo una questione di velocità di pensiero. Ora mi dica: come possiamo aiutarla?”

Così Esteban raccontò. Giudicando che fosse la semplicità l’arma vincente, la parola nuda, o il pensiero breve, istintivamente esposto. Se ci fosse stata una strada per fare breccia in quella che sembrava davvero la corazza di un uomo “sempre avanti”, questa non avrebbe potuto che essere la velocità. Nel riassumere raccontando, nel esemplificare le situazioni, nell’esplicitare subito gli obiettivi. Usò, quindi, poche parole. Non si abbandonò alle emozioni, non fu pietoso nel rendere implicito quel desiderio, quel bisogno di appoggio. Raccontò i fatti in cinque minuti, come li avrebbe raccontati un bambino che recita pedissequamente una poesia, o un brano di prosa classica. Non ragionò. Cerco di essere breve. Il più possibile. Fu un piccolo miracolo, perché scriteriatamente non si era preparato alcun discorso.
Partì da sé stesso, dal suo ruolo di assistente fra gli assistenti, virò su quel viscido incarico, sull’inquietante presenza dell’Eminenza, sul prolasso del suo maestro di fronte a una casa “qualsiasi”, e sulla fuga a casa di Estrela. Riportò, infine, le sconcertanti prese di posizione del prelato e le sue rivelazioni di quella mattina. Tralasciò di raccontare di quella passione per Estrela che lo rendeva uomo, ogni giorno di più. Giudicò fosse superfluo.
Quindi trasse dalla piccola sacca che si era portato, un oggetto così tanto significativo dall’avere in sé il senso di tutti quegli avvenimenti. Lo porse avvicinandosi. Lo ammirò ancora una volta ma senza distrarsi.
L’italiano coi baffetti ascoltò senza battere ciglio e in cinque minuti fu edotto. Seguì un breve silenzio, che diede tempo alla giovane donna in pantaloni neri di avvicinarsi all’Eccellenza e sostituire il boulon di cognac con un bicchiere d’acqua e limone.
Lei aveva un lineamento raffinato a incorniciare occhi scuri e profondi, pesantemente truccati. Un copro esile e sinuoso. Una grazia innaturale nei movimenti, come di ballerina che volteggiava anche scesa dal palcoscenico.
Poi l’Eccellenza parlò, facendo roteare la lampadina che il “nuovo” Antoni Gaudì aveva ornato con tre fili.
“Antoni Gaudì” Sussurrò concentrato sull’oggetto.
“Sì, è opera sua, Eccellenza”
“L’ho conosciuto tanti anni fa – riprese il maestro italiano - … Un uomo insopportabile. Dalle teorie estetiche assolutamente inaccettabili per noi…”
“Non si tratta…” Esteban si morse la lingua.
“…Sì, è evidente. Non si tratta di querelle artistiche e filosofiche. Si tratta di uomini, ora” Lo anticipò, piccato, l’italiano. “Si tratta di salvare o non salvare. Di aiutare o non aiutare. Di cimento o immobilità…”
“Io credo che Don Gaudì…”
“Sì, forse. Gaudì potrà anche rientrare in sé. In ogni caso non si sa quando. Non si sa come e soprattutto dove”
“Dove?” Fece l’architetto, spiazzato.
“Non vorrà aspettare in casa di questa donna, giovane amico? E aspettare cosa? – l’Eccellenza sorrise nell’atto di restituire la lampadina a Esteban – Non le conviene”
“Da solo…”
“E’ chiaro che, isolato, non ce la può fare…Ed è per questo che è venuto da noi, no?”
“Sì” Rispose Labruna desolato.
“Non le chiedo perché è venuto proprio da noi, architetto. Sto cercando solo di trovare una motivazione per aiutarla. Spero ci capisca. La semplice solidarietà umana noi la disprezziamo, come un orpello inutile che rallenta la società. Ne blocca il progresso. Ne ferma la crescita. Nel caso di Gaudì, poi…Beh, aggiunga anche che il suo maestro non è precisamente allineato con il nostro pensiero. – Sorrise beffardo, quasi cattivo -..Per la verità nemmeno con le nostre simpatie di pelle”
“Da uomo geniale…”
“Non esiste una ragione precisa per la quale un uomo di genio debba aiutarne un altro, ammesso che si sia in presenza di vera genialità. Lei, rischiando del proprio, aiuterebbe un altro architetto solo perché ha le sue stesse attitudini? E se questo suo omologo le fosse anche semplicemente antipatico? O peggio avesse idee pericolosamente diverse dalle proprie?”
“Non so..”
“Non lo aiuterebbe. Soprattutto perché non avrebbe nemmeno la possibilità di poterlo raccontare e quindi di esaltare la propria gloria” Si portò il bicchiere d’acqua alle labbra, senza staccare gli occhi dal giovane Esteban che rimaneva in piedi, ritto davanti a lui. Teso. Poi aggiunse:
“...Si tratterebbe di un’impresa a perdere. Uno di quei gesti fini a se stessi”
“Ma l’arte del maestro Gaudì…” Rantolò Esteban, sentendosi prossimo alla fine.
“Sì, sì. L’arte del…Come lo chiamano qui, Guillermo?…L’architetto di Dio. E’ indubbiamente importante per questa città, per un’intera corrente. Ma vede, architetto: non è la nostra CORRENTE. Non sono i nostri canoni, non è la nostra filosofia. La differenza che noi vediamo è la stessa che passa fra una linea retta e una curva. Dunque non è questa la motivazione che cerco…”
Fu in quel momento che Guillermo, rimasto in silenzio, seduto sul divanetto al fianco del proprio maestro, parlò. La sua voce ebbe l’effetto di squarciare un papiro già vergato di geroglifici, come dare un colpo a una trottola e, senza farla fermare, consentirle di girare nel verso opposto. Fu sbalorditivo, come stupefacente può essere una frase che cambia l’incedere degli avvenimenti.
Recitò a bassa voce, ma facendosi sentire con chiarezza:
Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro
Pochi secondi di silenzio e la “macchina” salvifica dell’architetto di Dio ricominciò a mettersi in moto, con nuova benzina al fulmicotone. Era la “trottola” che ora grava nel verso opposto.
“Lei è fortunato, signor Labruna” Riprese seccato l’italiano coi baffetti. “Talmente fortunato da non rendersi conto della propria fortuna”. Poi, volgendosi verso Benitez, lo apostrofò: “Ecco un discepolo che è più veloce del proprio maestro…A parte che non lo sia in motocicletta. Contro un muro”.
Benitez lo guardò impassibile, senza abbassare lo sguardo.
“Posso dunque sperare in un vostro aiuto?” Rilanciò rincuorato Labruna che aveva capito ben poco di quello scambio di battute.
“Beh, come ci ha ricordato l’amico Guillermo, sono le nostre stesse parole che ce lo impongono…Ora si segga pure. La nostra Benedetta sarà così gentile da offrirle un cognac, mentre lei ci racconterà cosa ha pensato per la salvezza del suo maestro”.

Di nuovo Esteban fu chiamato a esprimere i suoi pensieri in modo semplice, diretto, senza orpelli inutili. Con la velocità di chi ha le idee chiare, la voracità di chi ha bisogno di addentare e fagocitare certezze. La cupidigia di chi non resiste più e vuole condividere i propri segreti. I propri progetti estremi.
Lo fece, mentre il suo nuovo “tic” sembrava volesse dargli tregua e i suoi occhi si spalancavano e si serravano a fessura, a seconda del momento. Si mostrò come un fiume in piena, tentando involontariamente di coinvolgere con il proprio entusiasmo fattivo, con la propria inaspettata grinta.
Mentre raccontava da qualche minuto, Benedetta gli si era avvicinato e gli aveva porto un altro boulon pieno a metà di Cognac profumato. I suoi effluvi, mentre Labruna si sedeva al fianco di Guillermo ebbero l’effetto di schiaffeggiare definitivamente le proprie reticenze più nascoste. I propri timori più sconosciuti. Il suo “piano” era un vero piano? Se lo era domandato mentre parlava, attirando l’attenzione dei propri interlocutori. Mentre Benitez se lo godeva beato con un sorrisetto un po’ spastico, l’Eccellenza rimaneva impassibile gambe accavallate e l’unica donna presente se ne stava, in piedi, con le braccia incrociate dietro la schiena ed un espressione assolutamente asettica, nella propria bellezza. Nemmeno lontanamente afflosciata su quell’abbigliarsi ostentato da maschietto impertinente.
L’ultima parola di Esteban, coincise con il ritorno di quel tic fastidioso che lo aveva accompagnato da quella mattina. Quell’innaturale e nervoso strizzare di palpebre che lo rendeva così umano, così fragile, così terreno, rispetto alla grandezza dei propri propositi.
No. Quello non era un vero “piano”. Erano soltanto un’accozzaglia di idee e propositi, schematicamente uniti per dargli una parvenza di organicità. Quel “che” di realizzabile che avrebbe potuto coinvolgere le persone che lo ascoltavano. Avrebbe potuto, se le persone che gli stavano intorno, fossero state persone comuni. Forse.
Dopo che ebbe terminato, ci fu solo qualche secondo di silenzio, in cui nessuno si sentì di parlare. Poi Guillermo “aprì le danze”
“Il tuo piano fa schifo Esteban. Te lo dico, perché tu non possa credere di aver una qualche speranza di realizzarlo”
“Nondimeno qualcosa di buono c’è” Aggiunse serio l’italiano coi baffetti. “E non è detto che un piano astruso non abbia speranze di essere attuato e di avere successo. Dopotutto siamo a darle il nostro aiuto, proprio perché quest’impresa, come ha detto il nostro Guillermo, è abbastanza aggressiva da poter diventare un capolavoro. Casomai i dettagli…”
“Maestro, qui non si tratta i dettagli. Il piano fa ridere. Prima di tutto perché non prevede altra salvezza che quella di Antoni Gaudì…”. Benitez sembrò sul punto di irritarsi. Esteban apprezzò il coraggio che mostrava di fronte al suo maestro.
“E’ proprio questo il bello – lo interruppe l’Eccellenza -. Così non si salva altro che Gaudì. Cosa c’è di più bello?…Gli altri? Gli altri hanno la lucidità, il coraggio e la forza per fare da soli. Direi, caro Benitez, che tutto questo è abbastanza in linea con noi. Non credi?”
“Sì, maestro ma..”
“Bene, il nostro giovane architetto mostra di avere audacia e coraggio. E anche immaginazione. Capiamo che non gli importa di cosa potrà accadergli dopo. Giusto?”
“Giusto Eccellenza” Fece eco Esteban, dando un’altra strizzatina.
“Poi le coincidenze…Direi che le sue scelte di questa sera, siano state abbastanza fortunate. In quell’ambito, noi possiamo fare molto..E’ nostro territorio. Lì, possiamo aiutarla, ma fino a lì dovrà fare da solo. Avrà bisogno anche di molta fortuna. Lei è un uomo fortunato, Labruna?”
“Io credo davvero di sì”
“Speriamo. D’altra parte la fortuna aiuta gli audaci no?”
“Così dicono. Eccellenza”
“Provvederò a che tutto sia pronto per quel giorno, architetto. I dettagli potrà metterli a punto con Guillermo, se questi vorrà darle una mano. Le ripeto che a Barcellona io non posso aiutarla, dopo sì. Potrò darle appoggio. Se lo ricordi.”
“Lo ricorderò, Eccellenza. E spero di poter contare sull’aiuto di Benitez” Fece rivolgendosi al suo amico, mentre questi poco convinto, sussurrava un “Certo” di viscerale origine.
Seguì un congedo privo di fronzoli. L’Eccellenza annuì sorridendo e la donna si limitò ad allungare una mano perché Esteban gliela baciasse.
“Guillermo vai con lui. Domani mattina parleremo, prima della nostra partenza per Madrid” Disse il maestro “Ah Labruna – aggiunse poi l’italiano che Esteban era ormai di spalle verso la porta - , ci faccia sapere alla fine come se l’è cavata. Anzi, ci scriva. Ci scriva certamente. Guillermo sarà grado di lasciarle il nostro indirizzo di Milano. Resteremo in attesa. A peu prét, notre ami”

“Come me la sono cavata Guillermo?” Abbozzò Labruna, che erano appena usciti dalla hall dell’albergo. Non ottenne risposta, solo un grugnito impercettibile di malcelato disaccordo. Quasi di rabbia. “Mi spiace averti coinvolto… Speravo potesse essere una cosa che si chiudeva con l’aiuto dell’Eccellenza e dei suoi…” Incalzò, mentre il suo amico inforcava gli occhialoni, portandoseli al collo. Nella notte di Barcellona non c’era gente sulla strada. Solo un leggero vento invasivo.
“Tu non hai capito molto di questa sera, vero Esteban? E non hai capito molto nemmeno di noi…” Parlò stizzito il centauro, facendosi aggressivo.
“Ho capito quello che potevo capire e saputo quello che mi serviva…” Si chiuse Esteban
“Sì, il nostro maestro ti aiuterà”
“Appunto… E mi aiuterai anche tu, no?”
Benitez de Alphonsine, tirò indietro la testa in segno di improvviso, vero, disappunto e scese dalla motocicletta sulla quale era appena salito.
“IO sono uno dei SUOI, Esteban!…IO non ho paura di aiutarti!” Gli rilanciò, avvicinandosi minaccioso.
“IO sono quello che sbatte con la moto contro un muro..” Gli puntò il dito.
“Ma tu non sei andato a sbattere con la tua moto… Almeno non volontariamente”
“Appunto, importa che non lo avrei mai fatto…Così come non ci frega niente di Gaudì”.
“Lo immaginavo e allora…”
“Allora non ci piace impegnarci a creare un capolavoro, se sappiamo che non potrà mai diventare un capolavoro. Ti è chiaro?” Benitez sembrò tranquillizzarsi, con il suo collo che tornò a farsi taurino, corto. Il suo possente tronco si era prima irrigidito, lasciando sbucare un collo imprevedibilmente lungo in quell’arrabbiarsi a muso duro. Come quello di una tartaruga.
“Beh riusciremo a salvare il mio maestro. Ce la faremo. Il nostro capolavoro sarà quello”
“Continui a non capire. Il nostro capolavoro sarebbe stato farlo senza lasciare nessuno indietro…Ma capisco che qualcuno ci resterà, indietro. No?”
“Forse” Strizzò le palpebre Esteban, chinando leggermente il capo.
“Il “forse” non mi basta. Mi serve che almeno ci sia una possibilità. Un progetto di “ca-po-la-vo-ro”…Mi serve un altro piano. Il tuo fa schifo. Lascia pezzi di questa storia indietro. Non prevede nulla per i personaggi centrali nel quadro, non chiude la rima di una strofa…Fa VERAMENTE schifo…”
“Ah dunque…”
“Dunque ci sentiamo scoglionati in partenza” Sbuffò il pittore.
“Ma il tuo maestro era d’accordo con me”
“Per il nostro maestro, il capolavoro è solo salvare Gaudì. Tu non sei niente. O credi che lui ti ammiri per il tuo coraggio? Ora starà ridendo con Benedetta”.
“E tu la pensi diversamente, giusto?”
“Certo”
“Ti sto a cuore allora? Nonostante ci conosciamo solo da due giorni…” Sorrise imprudente
“Non essere idiota. Tu fai parte del pacchetto. Non puoi tirartene fuori. Il mio capolavoro riguarda te e Gaudì. Senza quello non c’è nessun “capolavoro”….Nessuna impresa. E non mi viene nessuna aggressività. E lo ripeto: mi sento scoglionato”.
“Sei strano Guillermo, lo sai?…Eppoi quella frase. Cos’è?”
“Vent’anni fa l’Eccellenza ha scritto una cosa che ha ispirato artisti, filosofi e politici di tutta Europa. Quello era uno dei suoi punti. Non poteva ignorarlo”
“Sei stato grande, Benitez”
“Doveva aiutarti solo per il fatto che glielo avevi chiesto. Solo per il fatto che gli hai proposto un’impresa che aveva in sé la bellezza della lotta, l’aggressività per un vero capolavoro…Io gliel’ho soltanto ricordato. Te l’avevamo detto, Esteban: l’italiano non è stanco, è solo proiettato su altre imprese”
“L’italiano? Come parli, Guillermo…”
“Parliamo come parliamo”
“Parli come una persona delusa”
“Parliamo come ci viene…Ma se vuoi sapere quanto ci piacciano i nuovi obiettivi del nostro maestro, ti dico che non lo sappiamo”.
“Ti riferisci a quello che accade in Italia” Fece Esteban, simulando di conoscere quella realtà.
“Mi riferisco al fatto che l’arte, la filosofia devono rimanere lontane dalla politica, perché rischiano di diventarne uno strumento. Non mi spaventa che ne diventino schiave nel presente, lo sono sempre state…Mi spaventa che ne diventino diretta espressione e che siano contaminate e che… E che tramontino allo scomparire di certa politica. La mia arte non voglio sia comparata ai governi, alle correnti politiche, ai capi di stato…Se fosse l’arte a contaminare la politica, tutto sarebbe migliore, il problema è che avviene sempre il contrario. Anche se l’Eccellenza non lo ammetterebbe mai..”
I due si guardarono. Guillermo sorrise amaro, Esteban annuì interdetto. Il centauro inforcò gli occhialoni e tornò a cavalcioni sulla sua moto.
“Monta ora – fece Guillermo perentorio – abbiamo ancora da chiarirci parecchio. Nel frattempo tieniti forte. Ho voglia di correre”
“Guillermo?” Chiamò Labruna, mentre il motociclista dava di manopola e aumentava la velocità fra le strade deserte di Barcellona.
“Dimmi”
“Prima hai parlato per qualche secondo in prima persona…” Fece ironico
“Tu invece hai strizzato gli occhi almeno dieci volte” Rispose Benitez, serio.
Ad Esteban parve un compromesso onesto, mentre gli sembrò di diventare il padrone di un intera città. La sua. Si disse che anche quella era dalla sua parte.