domenica 6 giugno 2010

L'occasione della forma 27^ - Casaciò al "Cercatoredimodi"


[omissis]
“Non brama di gloria o ambizioni insane, solo uomini. Dimenati come drappi al vento, alla ricerca di se stessi. Nelle discese, nelle risalite, nelle assenze. Ho perso un amico che non ho mai avuto davvero, un’anima gemella fors’anche o speculare; riconosciuta in quel tratto d’identica creatività, perso per sempre senza averne risposta. Vorrei chiedergli. Dovrò dirmi da solo”.
[omissis]

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martedì 13 aprile 2010

L'occasione della forma 26^ - "Pobre..Pobre..Pobre.."


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L’architetto giovane aveva preso delle decisioni risolutive, adottato soluzioni. Le stesse che le persone scelgono nei momenti di difficoltà, beandosi poi per il loro successo, senza indagare oltre sulla natura e sull’origine di queste. Forse perché la soddisfazione obnubila, o più semplicemente perché è così bello cullarsi nelle proprie “capacità superiori” da non assurgere ad altro sforzo di approfondimento, se non quello edonista del sentirsi più furbi, più attenti, più intelligenti degli altri.
In realtà è il caso, qualche volta, a fare della “scelta giusta” l’inevitabile strada da percorrere, a rendere la persona “geniale”, quando geniale proprio non è, anzi. Qualche volta l’ottusità richiede più inviti da parte del caso stesso, che finisce col mandarti uno, due, tre segnali diversi, in momenti differenti. Tutti a indicarti la strada. La stessa che si finisce con l’imboccare e che porta alla soluzione, alla decisione risolutiva.
Esteban Labruna da Cadaquès non era certo un genio e certamente non era un tipo particolarmente sveglio; era più semplicemente un giovane che il caso aveva voluto aiutare nel suo nobile compito, mandandogli vari segnali. Non tutti capiti, soprattutto nell’immediato...
[omissis]
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venerdì 5 marzo 2010

L'occasione della forma 25^ - Grand Guignol



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“…Se fossi io, lì. Di che natura sarebbero i miei lamenti? Di che intensità?”
A Esteban piacevano le donne con un seno prosperoso. E le gradiva più vecchie di lui, che aveva solo ventitré anni nel 1926. Le voleva sulla trentina, preferibilmente more, certamente profumate, all’occasione trascurate. Dai propri mariti. Non sapeva “perché”, non gli importava; sapeva “come”. E questo gli poteva bastare; gli bastava osservare un bel viso con quel velo di “vissuto”, di esperienza affastellata che si poggia sulle femmine che sanno cosa vogliono, che hanno già fatto la conoscenza con il rimorso, con il rimpianto. Che lo conoscono abbastanza da non lasciarsi sfuggire nessuna occasione, carnale o sentimentale che fosse degna di questo nome. Non conosceva la radice del proprio istinto erotico, da quale pulsione o appetito del proprio animo questo attingesse i propri desideri, dove poggiasse insomma. E nemmanco sapeva riconoscere cosa davvero di una femmina infiammasse il proprio desiderio, sapeva solo che se una bella donna adagiava lo sguardo su di lui e il suo portarsi era quello di una dama, o di una “signora”, in lui si accendeva quell’erotismo che gli istigava quella voglia di possedere, di brandire, di sottomettere perfino.
Chissà, forse la radice di questo portamento risiedeva nella necessità di issarsi, rendersi adeguato a donne che apparivano così distanti, distaccate, superiori; o forse più semplicemente il proprio istinto sessuale lo trainava fino alla certezza che una donna più vecchia era certamente più esperta, più consapevole, più tesa a farsi “preda”quindi. A lasciarsi andare, pur nell’austerità del suo atteggiarsi.
Nel suo viaggio a Parigi aveva incrociato lo sguardo con la moglie di un medico di Grenoble. Donna elegante e morigerata nell’abbigliarsi, con uno sguardo altero ma pungente, quando i suoi occhi castani s’indirizzavano su qualcuno. Mai a caso.
[omissis]

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mercoledì 28 ottobre 2009

L'occasione della forma 24^ - Solita bandiera...Solito canto


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Howard ricevette una lettera una mattina d’inizio giugno. Da principio proprio non si accorse di quel plico leggero ripiegato in una busta giallina, così ritirò la pila di missive dalla cassetta delle lettere e, senza neanche sfogliarle, andò a deporle sul trumò nell’entrata. Poi uscì, distratto dai propri pensieri. Non prima di aver salutato le zie e aver ricevuto in cambio l’ormai abituale silenzio ombroso di Lilian.
Era una di quelle giornate che riconciliavano con la cupa Providence: il sole era alto, i giardini profumavano, la gente per strada sorrideva. Da un po’ di tempo Howy aveva preso un nuovo giro nelle sue passeggiate mattutine, attraversava direttamente il centro del borgo, camminando velocemente sul marciapiede, facendo ben attenzione a non calpestare la giunzione delle mattonelle di cemento. Quello era l’unico artificio che lo teneva legato alla realtà quotidiana per la durata di quella che avrebbe dovuto essere un’ora di svago puro, prima di sedersi alla Remington e ricominciare scrivere. Esattamente doveva aveva lasciato la sera prima.
In realtà erano passeggiate veloci, di puro esercizio fisico, di percezione aliena dalla volontà di mischiarsi con la microrealtà della cittadina. Qualcuno lo salutava, lui rispondeva, ma se qualcun’altro avesse avuto l’idea di chiedergli qualche passo più là “chi” precisamente avesse salutato, Howard certamente non l’avrebbe saputo dire. Salutava e basta. Per cortesia. Per esser lasciato in pace, anche.
Così qualche volta capitava che, tornato nel suo studio, non si rendesse neanche conto di chi avesse incontrato e, soprattutto, quali parole gli fossero state rivolte.
Quella mattina d’inizio giugno non andò così. Proprio davanti al municipio, mentre sobbalzava con il suo strano passo da segaligno, capitò che incrociasse il postino del paese, il quale sorridendogli gli aveva rivolto un… “Abbiamo ricevuto posta importante, oggi mister Howard eh..”
“Posta?…Importante?” Lovecraft realizzò l’essenza di quella affermazione, almeno una manciata di secondi dopo che ebbe salutato l’omino della posta. E fu un attimo.
Corse a perdifiato verso casa, tanto da scansare a fatica i pochi passanti sul marciapiede opposto, raggiunse il cancelletto della sua casa, lo aprì e proruppe nell’entrata, proprio mentre zia Lilian si portava agli occhi quella strana missiva.
“Ber..Bar…” Abbozzava distratta l’anziana, nel tentativo di leggere il timbro postale.
“E’ roba mia, zia Lilian” Gli disse Howy, serio.
La donna gli mise la lettera in mano.
Lui andò nel suo studio, aprì, lesse.
Fu come quando il vento gira.
[omissis]

“Dodici, forse quattordici chilometri…Ma dovrò trovare il modo di fermare tutto questo. Tutto questo” .
Non era solo il dolore, nemmeno il caldo afoso, forse solo l’idea di quello che aveva perso. Di ciò che non avrebbe avuto più, qualsiasi cosa fosse accaduta da lì in avanti. Era quello l’ostacolo più difficile da sopportare ora che, sapeva, avrebbe vissuto un’altra vita.
“Quale vita?” Il pensiero gli ribolliva dentro, come una caffettiera stracolma sulla fiamma.
“Dodici o quattordici chilometri…”.
Da fare a piedi: ad ogni passo un po’ di sangue in meno, ad ogni falcata una goccia di sudore. A confondersi e fondersi e impastarsi con la sabbia sulle mani, o su quello che ne restava. Non si chiese se voleva vivere, fu quella la sua fortuna, perché è quell’anima indipendente insita nel corpo umano che certe volte, quelle volte più drammatiche, spinge le persone a resistere. Malgrado tutto. Così non fu la mente a tentare di salvarlo. Fu il proprio corpo, sganciato da ogni pulsione intellettuale, affrancato da ogni volontà cosciente. Fu quello che comunemente è chiamato “istinto di sopravvivenza” che lo sorresse, trascinandolo a un passo, a un altro, al successivo…Se questo compito fosse stato delegato alla ragione, non ci sarebbero stati quei diecimila passi.
“Conterò i passi…” Si disse poco dopo aver urinato su quelle tremende ferite ed aver sentito, in tutto la loro assurda essenza e per la prima volta, quei tre moncherini che s’irrigidivano e si flettevano in fitte di dolore lancinante. Poi sragionò: “La piscia. La piscia mi salverà…- si ripeté ad alta voce che il fumo del treno in fiamme era ancora ben visibile alle sue spalle – Lo sanno tutti che ha il potere di anestetizzare..No, no…Meglio ancora: di cicatrizzare, di sterilizzare…”. Subito dopo aver compiuto l’operazione Paco non poté fare a meno di guardarsi la mano destra, per un attimo pulita dal sangue e dalla sporcizia, vide le tre dita e quello che ne restava. Mignolo, medio e anulare esistevano solo nella radice che si univa alla mano. Tre tagli netti, ordinati e asimmetrici, lo rendevano monco. Fu come guardare la propria bara, prima che gli amici se la caricassero sulle spalle al proprio funerale e quindi apostrofarli: “Io sono ancora vivo! Ancora vivo!”..
“La mia mano c’è ancora” Farneticò Paco sorridendo strano. Avvampato da un’ebbrezza instabile.
Si sentì sull’orlo della pazzia fra dolore e sconcerto e paura. Poi poggiando la mano ferita al petto della giubba kaki, con la sinistra si arrotolò uno dei fazzoletti sottratti ai compagni morti, strinse forte serrando i denti, cancellando le fitte sconosciute che ne percuotevano mano e braccio fino alla spalla. Strinse forte, come per mettere in quel gesto, tutta la voglia che aveva ancora.
Di vivere, di provare a essere qualcosa di diverso.
Ma non era la sua mente che spingeva, era il suo corpo, le sue membra che pulsavano, indipendenti dal cuore e da una testa obnubilata, schiava del dolore, confusa dalla mutilazione. Dell’agire, del disporre.
“Uno due..Uno due..Un passo dopo l’altro, una marcia, questa deve diventare una marcia. Chihuahua non è lontana…Ci arriverò in tre ore, forse quattro”
Si disse, mentre il sole alto, l’odore della polvere da sparo, il puzzo del fiato di Fierro ancora gli stagnavano addosso, come la farina sui panettieri al mattino presto. Il deserto pietroso era come un grande paiolo di rame, dove si arroventava la vita di un capitano dell’esercito messicano che aveva perso se stesso, o quello che aveva scelto di essere fino a quel momento.
Fu ritrovando la disciplina della marcia che gli avevano imposto all’accademia fino allo sfinimento che Paco de Los Rios arrivò a coprire cinque, sette, nove chilometri in poche ore. Dritto come un filo di erba, esile come una corda tesa, vulnerabile a un’idea: quella di cedere alla stanchezza, al dolore. Quindi anche il suo corpo cominciò a flettersi debole, il braccio al collo gli aveva intriso la giubba al ventre, gli stivali impolverati non avevano che il ricordo dell’antica luccicanza delle parate.
Si fermò, si chinò, buttò il capo fra le gambe senza accovacciarsi come a riprendere le ultime forze. L’orizzonte, fino a quel momento increspato solo da roccia e pietrisco polveroso, finalmente gli regalò un’immagine. Era la propria, quella di giovanissimo cadetto dell’Accademia che, fermo, determinato, convinto, recitava ad alta voce la preghiera dell’ufficiale messicano. La filastrocca ridondante che imponevano a memoria ad ogni ragazzino. Ad ogni futuro ufficiale. A lui piaceva. Piaceva come può piacere a un ragazzo l’idea di appartenere a qualcosa, di essere qualcuno. Confuso fra la folla dei suoi simili, unito a loro. Nei successi, nelle sconfitte, nella gioia, nel dolore. Gli consegnava l’idea di non essere mai solo, di essere quella parte di un tutto che lo rendeva certo meno libero, ma infinitamente meno vulnerabile. Alla vita, alle sue sconcezze.
Così con la bocca amara per la sabbia, la giubba intrisa, le gambe pesanti e quella voglia di dormire che gli sussurrava un annuncio di morte, cominciò a recitarla ad alta voce, perché anche la sabbia, il vento caldo fra le dune, le pietre dei cumuli arroventati potessero sentirlo. Perché lui non era solo. Era parte di qualcosa il capitano Paco de Los Rios. Aveva vissuto in quella e per quella, si era nascosto, si era cullato proteggendosi.
E ripetè. E ripetè.

“Io sono quello che cade. In fondo alla fila di destra. Che non ride più, affianco al suo compagno, ignaro e sordo, che procede il passo. Sì, io sono quello che cade, con la sua divisa di pulsare frenetico, le giberne rase a pallottole oliate, la luce che si spegne. Lontano dalla bandiera, vicino alla meta. Così uomo, così donna. Dal ventre che mi ha generato, al prato che accoglie il mio viso caduto. Con musica di tamburo nel cuore che spinge a rialzarmi.
Di ferite non si muore, se non si ha paura.
Io sono quello che cade là, in fondo alla fila di destra. Io sono quello rialzato a continuare la marcia” .


Quella prima sera passata a casa del traduttore il capitano de Los Rios aveva continuato a raccontare ad Howard questa storia, la sua storia, lisciandosi il pizzetto più volte, con un sorriso per nulla drammatico o ironico. Solo con la consapevolezza di chi sa di averla scampa bella, di aver avuto una seconda chance. Forse inutile, quasi certamente immeritata, come non sempre, anzi quasi mai giusta è la spinta del caso che dice “bianco” per te e “nero” per chi ti sta affianco. O viceversa.
A un certo punto del suo racconto aveva poi cominciato, con un’abilità imprevista a disegnare frenetico su un foglio di carta.
Howard l’aveva ascoltato e si era rasserenato, dopo lo sconcerto per il “dono” che Fierro aveva fatto al suo amico quindici anni prima e aveva giudicato strano: lui che aveva votato la sua scrittura all’orrorifico, al mostruoso, all’orrido, pulsare ed emozionarsi per una storia così semplice, così reale.
Il disegnare del suo ospite si era quindi fatto più impegnativo e deciso.
“Dimmi americano: non sei curioso di sapere come mi sono salvato?” Gli aveva chiesto a un certo punto Paco, svegliandolo dalla sua meditazione, dal suo sedimentare la storia.
“Sì, ci stavo arrivando Paco” Ribatté pronto Howard, come svegliato si soprassalto.
“Niente… Ho recitato questa filastrocca cento volte, non ricordo più. Appena in lontananza ho visto le prime case di Chihuahua ho smesso. Mi sono seduto e ho ceduto alla stanchezza”
“Ma come? Proprio nel momento più importante, hai voluto rischiare apposta…”
“Sì – aveva sorriso il traduttore – , anzi no. Ho voluto vedere cosa mi attendeva. Non ero sicuro di voler vivere in quel modo, con quella mano destra. Ero stanco, dissanguato. Ho pensato di far decidere al destino e mi sono lasciato addormentare. E’ andata così. E andata bene no?”
Howard era rimasto come pietrificato per alcuni istanti, quindi quel silenzio era stato rotto da Paco che era tornato sull’ultimo quesito.
Lo scrittore ebbe il tempo di pensare che non era male di fronte a un bivio, far decidere al destino. Quello “vero”, quello che quando sei totalmente in balia degli eventi, davvero si rende visibile nella sua cervellotica astrusità. “Bianco o nero” Si ripeté Lovecraft, pensando alle ultime parole del suo traduttore. “Bianco o nero e tu non puoi scegliere. O per una volta: non vuoi”.

“Finì che fui raccolto a un paio di chilometri dalla salvezza. Mi salvò un gruppo di poveracci in fuga dalla guerra civile – aveva poi spiegato Paco, una volta terminato il proprio disegno e ripiegato il foglio -. Avevo pensato che solo per il fatto di essere un “odiato” militare mi avrebbero fatto a pezzi. Non fu così, per fortuna. Era povera gente impaurita, alla ricerca solo di un po’ di tranquillità e protezione. Costi quel che costi.
Avrebbero potuto finirmi a bastonate o anche lasciarmi lì a morire dissanguato, nessuno lo avrebbe mai saputo.
Così in un colpo solo capii che quella rivoluzione nasceva sì fra la povera gente delle campagne, ma che non tutti fra questi la volevano; e che c’è ancora tanta gente che ti guarda e ti vede solo come un uomo, nonostante i panni o le divise che vesti. La mia vita ricominciò da quelle due certezze. Ancora adesso penso che Rodolfo Fierro lo sapeva. Sapeva che sarei andato incontro a questo percorso e mi lasciò in vita anche per affrontarlo. Alcune volte mi vergogno un po’ a pensare una cosa tanto assurda..Ma visto che siamo in vena di confidenze…”

Quando Howard affrontò l’ultima rampa di scale e si sistemò davanti alla porta, aveva in mente solo due cose. La prima era quella di riuscire a spiegare presto e bene, senza parole inutili. La seconda era quella di riuscire a intuire, nello stesso tempo e con le stesse modalità, quali potessero essere le reazioni alle sue parole. Erano passate poche settimane da quando si erano visti e avevano stretto amicizia, ma quel messicano irsuto dallo sguardo intelligente gli era ormai familiare. Di più: pensava potesse rappresentare qualcosa che non conosceva, ammise fra sé, poi così bene.
Era questo il seme dell’amicizia più sincera? Quello che cade trasportato dal vento in un prato attiguo, piuttosto che lontanissimo e che fiorisce però. Come mai ti aspetteresti, diventando germoglio, poi pianta, poi quercia magari. Ad Howard, calato al Barrio d New York di fretta e furia dalla sua Providence, sembrò davvero così. Sembrò davvero di potersi affidare a quelle braccia nodose, a quella cadenza ispanica, a quel periodare lento di voce roca e saccente.
Si disse che quello che aveva da dire non era cosa da poco; che quello che voleva chiedere non si poteva domandare a cuor leggero. Ma questa era la sua nuova natura e davvero non aveva più voglia di filtri, di emozioni staccate, di spine penzolanti. Voleva dire e voleva provare tutto. Nello stesso tempo. E se la risposta fosse stata un “no”, l’avrebbe accettata come si accetta un rifiuto, lasciandosi andare al rammarico.
Non importa delle proprie smorfie, non importava proprio correre il rischio di dipingersi in volto la propria delusione. Così si sistemò la giacca e bussò due volte.
“Oh –fece Paco, mentre gli si disegnava un sorriso – il mio amico ammericano. Un’altra traduzione?”
Howard gli sorrise sereno ed entrò. Riuscì bene a svincolarsi dalla tentazione di eccedere nei convenevoli, quindi si sedette in cucina e parlò, sistemando sul tavolo la lettera che aveva ricevuto solo il giorno prima.
Parlò asciutto e veloce, senza grossa emozione, cercando insieme di osservare il viso del suo interlocutore che ascoltava, peraltro, senza tradire evidenti emozioni. Il suo viso anzi, diventava una maschera impassibile come se fosse stato di cera. Quel pomeriggio d’inizio estate, diventò sera subito, quando Paco de Los Rios, terminato di ascoltare le parole del suo amico, finalmente decise di dire la sua.
“Vuoi un caffè mister Howard?” Disse, sorridendo beffardo.
“No, grazie. Ma…”
“Ma ti ho ascoltato con molta attenzione, amico. E devo dire che quello che mi chiedi è una cosa semplice, fattibile…Voglio dire: di queste cose, ne ho fatte di peggio – si mise a ridere esplicito -. Il fatto di essere messicano autorizza mezzo mondo a venire da me in cerca di aiuto. Compaesani, messicani, finti messicani, ispanici di ogni provenienza. Sembra che per il fatto di avere questa origine, parlare questa lingua, tutti siano autorizzati a venire da me…”
“Ti disturba, vero?”
“No, affatto mister Lovecraft. Ti dirò che gli unici che non aiuto sono gli assassini. Ce ne sono tanti in giro sai? …Il vantaggio di tradurre tutto per tutti: alla fine vieni a conoscenza anche di cose che non vorresti sapere. Così finisci tuo malgrado per sapere ogni cosa, magari in anticipo, di chi viene a bussare alla tua porta e si sente in diritto di farlo, solo perché parla la tua stessa lingua in un paese straniero. Beh, a me tutto questo sapere non serve, non m’importa degli errori di chi mi chiede aiuto. Solo gli assassini… Quelli mi rifiuto di aiutarli. Ho visto troppa gente morire e..Ed è vero: la morte appiattisce ogni cosa, ogni differenza, ogni ideale in chi muore. Chi uccide invece…Chi uccide potrebbe rifarlo. Non importa le motivazioni che lo hanno spinto la prima volta. Ho visto troppa gente morire e non ho fatto nulla per impedirlo. Ora basta, non voglio più essere responsabile…Agire e non fare niente è la stessa cosa”
“Ma qui, non si tratta di morte” Aggiunse Howard sereno
“Sì, non si tratta di morte e ti dirò che la cosa mi rasserena parecchio. Sarà più facile fare per te, quello che devo fare…” Poi sorrise con i suoi occhi verdi e i nervi del suo collo che si tirarono agili, alla luce della lampada a olio sul tavolo.
Il capitano fece portare dalla taverna all’angolo un ricco piatto di mole negro, quindi i due amici parlarono bevendo vino rosso e pulendosi con gli avambracci. Di tanto in tanto Paco bloccava d’istinto la propria ilarità e, mentre il segaligno Howard rimaneva paonazzo in viso per il ridere, si fermava a guardarlo silenzioso, come se volesse studiarne gli atteggiamenti. Lo faceva con una luce di compiacimento davvero sincera che solo dopo alcune ore finì con il turbare Lovecraft.
“Che hai da fissarmi ogni tanto?” Lo incalzò, serio a fatica.
“Ah, non so mister Lovecraft, me lo devi dire tu…” La mezzanotte era ormai passata da una decina di minuti. Sulla tavola i resti di una cena saporita e unta.
“Perché?” Aggiunse decelerando le risa.
“Perché non capisco se è questa la tua vera natura, o sei cambiato dall’ultima volta che ci siamo visti… Tutti quei discorsi: stacco la spina di qua, stacco la spina di là…Sei diverso”
“Diverso come? Più bello?” E nel farlo si mise una buccia di banana in testa, simulando una parrucca, mentre ricominciava a ridere. Il vino aveva fatto il suo effetto.
“Più umano…Più umile Howard”
Il silenzio che seguì a quello fu qualcosa che Lovecraft non riuscì a decifrare. Fu come se di colpo cambiassero le luci sul palco e da un’illuminazione totale, si passasse a quell’occhio di bue che può fare la fortuna di qualsiasi attore, cantante o ballerino esordiente. Lo scrittore di Providence lo sentì su di sé e quindi rispose. Con una domanda.
“Sei mai stato innamorato, Paco?”
“Che questioni…” Rispose il messicano di getto, scrollando il capo di lato. Howard non ci fece caso, aveva già perso i suoi freni inibitori: “Io sì. Davvero.Tanti e tanti anni fa. Il bello… Il bello è che me lo ero dimenticato” E scoppiò a ridere come se gli fosse andato di traverso qualcosa nel bere.
“Ah..”
“Davvero, sai? Si chiamava Charlotte: mi ero dimenticato di lei”
“Ricordartelo ti ha dato una scossa eh?” Sorrise compiaciuto.
“Direi di sì. Per tutto quello che è venuto dietro…E’ stato come richiamare la catena di una nave. I ricordi sono venuti fuori anello dopo anello. Ma non mi hai risposto”
“Cosa? Ah…L’amore. Non trovi sia un argomento noioso?”
“Sì, cioè no. Lo pensavo fino a qualche giorno fa, poi…”
“Poi questa Carlotta, ti ha rifatto bollire il sangue nelle vene eh…E dov’è ora?” Fece malizioso l’uomo senza tre dita, mentre con gli opponibili della destra si accarezzava il pizzo.
“E’ morta, tanti anni fa”
“Beh, mi spiace ammericano…Ma riesce ancora a sortire dei cambiamenti su di te. E che cambiamenti. Direi che sei meglio di come ci siamo salutati e non sarà solo per la nuova lettera che hai ricevuto immagino…”
Howard bevve un altro bicchiere di cerveza, buttandolo giù come avrebbe fatto un bullo di periferia al bancone di una bettola, poi guardò dritto negli occhi il suo amico e fu come se lo sfidasse. Questa volta non scherzava…
“Tu tergiversi, signor de Los Rios. Rispondi alla mia domanda prego. Ti sei mai innamorato?”
“E’ un argomento noioso parecchio, amico mio”
“Immagino. Come può essere una storia che ti riguarda, Paco”
Ribatté ironico lo scrittore, mentre si versava da bere. Non era per il mole negro salato, era per il desiderio di aver sempre meno freni inibitori. Come una discesa consapevole verso il traguardo della sincerità vera. Quella che coincide con la liberà più profonda che un uomo possa concedersi.
Il messicano gli sorrise sobrio. Poi attaccò: “Yo soy un hombre como todos… Sono come tutti Howard. Mi sono innamorato anch’io. Certo… Claro que sì”.
Non lo faceva mai, o quasi. Intercalare la sua lingua con quell’inglese che aveva appreso così bene negli ultimi lustri. Howard notò che gli capitava, quando il suo argomentare sprofondava di un livello. Scendeva verso l’intimo nascosto. Oltre i racconti di mutilazioni, di sangue, di morti, di aiuti alla mala del Barrìo. Quelli non erano che la parte emersa del passato dell’ex capitano. Era ovvio che doveva esserci molto. Molto di più.
“Un donna? Un amore? Più amori?” Rifletté Lovecraft, mentre osservava Paco specchiarsi nel fondo del suo bicchiere. Pensò alle notti trascorse qualche settimana prima a casa del suo traduttore, a quel vociare vitale che aveva investito il corridoio di quell’abitazione nel cuore della notte. Alle risate, al rumore di tacchi alti fra le stanze, fra quei muri. Nella casa di Paco che era come un porto franco dove tutti potevano approdare, dove qualche volta ormeggiava anche qualche elegante vascello di legno dalle vele prosperose e gonfie. Destinato al padrone di quelle banchine. Cosa poteva trasportare: amore? Sesso sfrenato? Quale tipo di appagamento? Howard non lo voleva sapere per curiosità becera. No, aveva bisogno di punti di riferimento. Semplicemente.

Come poteva amare un uomo così? Che era già morto una volta e un’altra aveva ripreso a vivere. Disincantato, eppure generoso. Sobrio eppure così disposto a giocarsi tutto. Ogni volta.
“Io ero sposato – ricominciò il traduttore – . Ero sposato, quando Fierro mi fece questo. Ramona, si chiamava, o si chiama. Anche se non so che fine abbia fatto…”
Howard lo guardò come si osserva uno scrigno che, piano, si apre. Non nascose la sua curiosità, non occultò il suo stupore. Non poteva più farlo.
“Quando fui di ritorno dall’ospedale militare, avevo in mano solo una licenza che avrebbe fatto da ponte per il congedo illimitato. Così conciato non servivo più all’esercito repubblicano del Mexico, lo sapevo. Non ci rimasi male. Quello che non mi aspettavo era che i cambiamenti sarebbero arrivati così veloci nella mia vita, da non consentirmi di pensare, di prepararmi. Di pianificare anche.
Ramona era la figlia di un proprietario terriero del distretto di Guadalajara. Una femmina che sapeva riconoscere l’autorità… Quella di un padre importante, di un marito, di una divisa. Avrei dovuto capire che io non sarei stato mai più nulla di queste tre cose, per lei o per i figli che avremmo voluto. Cominciai a capirlo dall’unica volta che venne a trovarmi in ospedale durante la convalescenza. Quel giorno mi aveva chiesto di sbendarmi e di fargli vedere la mia…La mia nuova mano. Vidi il suo viso impassibile e freddo. Avrei tanto preferito che si ritraesse inorridita, invece rimase a guardarla senza toccarmi. Ferma, con i suoi occhi neri e i capelli raccolti. Credo che in quel momento smise di amarmi. Farfugliò qualche parola vuota di compassione, poi mi sorrise finta e infine mi baciò sulla fronte, prima di andarsene.
Ti giuro Howard che quel giorno mi sembrò ancora più bella…”
I due commensali si scambiarono un sorriso ormai a notte fonda. Un sorriso diseguale, scomposto in discesa. Da una parte il picco vitale di Lovecraft, dall’altra l’ilarità del traduttore che scivolava verso il basso. Da eroe sconfitto.
“Tornai da lei qualche settimana dopo, sapevo non sarebbe più stata la stessa. Così continuai a viverle accanto per qualche mese, aspettai e aspettai… La notte la sentivo sgusciare via dal nostro letto, ma non m’interessava sapere dove andava..”
Howard continuava a osservarlo dall’altro capo del tavolo. Il tasso alcolico gli impediva di assumere una posa aggraziata, ma non gli toglieva un istante la lucidità, la capacità di analisi. Non edulcorava nemmeno quel sentimento che gli raschiava dentro. Come unghia affila sulla parete di una lavagna. Di tanto in tanto soffiava impercettibilmente nelle narici e abbozzava un sorriso amaro al contempo. Come per lanciare una invisibile ciambella di salvataggio a un amico che stava annegando. Da anni stava annegando, ma senza affogare.
Paco roteò l’ennesimo cigarillo e se lo portò alle labbra. Con il solito sbuffo speziato, lo accese roteandolo alla fiamma.
“Sì, non m’importava niente. Nemmeno dei sorrisetti maliziosi dei vaccheros, come degli sguardi di compatimento e imbarazzo di suo padre. Aspettai che i tempi fossero maturi, che qualcosa mi scattasse dentro ma che non sapevo cosa potesse essere…Quella era la mia nuova vita ma, insomma…Che vita era? – l’ex capitano prese fiato, inalando tutto il fumo che ancora gli si ammassava alle labbra dopo l’ennesima boccata, poi continuò – E allora una sera, tre mesi dopo il mio ritorno, attesi che mia moglie uscisse la notte e la seguii. La vidi attraversare il piazzale del rancio e infilarsi nell’alloggiamento del capo mandriano. Un biondo ammericano chiacchierone che era arrivato a Guadalajara da poche settimane… Non mi servì vedere con i miei occhi, non m’importava chi fosse e nemmeno cosa facesse Ramona. Dentro di me avevo già deciso cosa fare..”.
Howard sentì un brivido ghiacciato che gli accarezzava la nuca e scendeva verso i glutei, come una corposa goccia di acqua gelida, scivolata giù. Dalla sua ragione, attraverso il suo intuito, fino alle proprie sconcertanti certezze.
“Paco è un assassino di coppie fedigrafe… Un uomo che aveva saputo uccidere, dunque, e che secondo le proprie parole avrebbe potuto rifarlo” Si disse.
Come aveva potuto giudicarlo così bene? Faticò a deglutire e attese, ascoltando il suo amico.

“Feci quello che mi sembrò più naturale. Stetti zitto, in attesa che lei tornasse fuori. L’aspettai e la vidi, facendomi vedere. Non feci altro, non sarebbe stato necessario. Ci guardammo come per riconoscerci alla luce di una candela, nel buio. Il bello è che ci riuscimmo…”
“L’hai uccisa vero?” Fece Lovecraft con un filo di voce, come potrebbe chiederlo un bambino.
Solo poche settimane prima questa domanda non l’avrebbe mai rivolta. Solo poche settimane prima non sarebbe rimasto lì. Ad ascoltare.
Paco sorrise e scosse il capo.
“Non l’avrei mai fatto mister Howard. Non l’avrei mai fatto…Non ebbi nemmeno l’impulso di arrabbiarmi e credo nemmeno lei di vergognarsi. Sì, ci riconoscemmo quella sera. Io non ero più il capitano de Los Rios e lei… Lei non era più mia moglie. Non ci furono parole, non ce n’era bisogno. Ci guardammo in silenzio per qualche secondo, avrei voluto scusarmi con lei e forse lei avrebbe voluto fare lo stesso con me, glielo lessi in faccia ma…Non era la vergogna per quello che aveva fatto, per il tradimento. Mi voleva chiedere scusa per non essere stata capace di accettarmi per quello che ero diventato di diverso. Un uomo nuovo, non certo migliore…Diverso. Solo”
Lo scrittore si ritrasse sullo schienale della sedia, come per tirare il fiato.
Il suo volto descrisse il suo stupore, il suo candore infinito. Il suo volto parlò a Paco, senza che la sua bocca dicesse.
“Avrei voluto – continuò il messicano - chiederle scusa per essere arrivato lì, davanti alla sua alcova, per essermi intromesso..Avrei voluto farmi perdonare per tutto quello che stava finendo fra noi e per il fatto di aver deciso di essere lì, quella notte.
Sapevo che l’essere arrivato davanti a quella porta, avrebbe rappresentato un taglio netto a tutto. Al mio passato, al mio matrimonio, alla mia vita in quell’ovatta che ormai non potevo più accettare. Erano mesi che lo sapevo. Quello fu solo il pretesto per avere la spinta ad andarmene. Fui vigliacco, me lo concessi..Pensai che me lo fossi meritato. Nel bene, nel male”.
Howard lo fissò stupito, Paco non si fermò a commentare l’atteggiamento del suo ospite. Si sforzò solo di essere più diretto.
“La mia vita, Howard, era irrimediabilmente cambiata su quel treno. Allontanare Ramona, avere la scusa per farlo…Per andarmene senza voltarmi, credo fu un atto di vanagloria e di egoismo da parte mia. So che la lasciai con un senso di colpa profondo, per come era abituata a pensare. Ma non ho potuto fare diversamente.
La mattina dopo avevo già pronta una valigia, mi feci accompagnare alla prima stazione e poi partii per gli Stati Uniti. Di Ramona non ho più saputo nulla. Lei è stata l’unica donna che ho veramente amato, ma…Ma forse sarebbe più giusto dire che ho amato prima di queste…” E agitò i tre moncherini della destra, come si ostenta un saluto a mano aperta.
Poi aggiunse, fra il serio e il ridicolo: “Amico mio, non chiedere mai a un uomo senza un pezzo del proprio corpo se ha mai amato in passato, potresti pensare di fare una domanda semplice, senza sapere cosa di complicato ti tiri addosso…”
Lovecraft rimase un istante a fissarlo e vergognandosi un po’ con se stesso. Intanto perché aveva creduto Paco capace di uccidere a sangue freddo e poi perché capì cosa nascondevano le ultime parole del suo traduttore. Sentì che c’era come un monito, una sorta di scudo spalancato davanti al messicano e rappresentato da parole tanto semplici che sapevano quasi di biasimo.
Fu come se gli avesse detto “Non pensare, solo per il fatto che sono un semplice traduttore, che la complessità non mi appartenga, che non mi appartengano le passioni, le pulsioni, le volontà...Le stesse che appartengono a chi immagina storie incredibili di personaggi immaginari”.
Poteva Paco de Los Rios avere una vita sentimentale “normale” da raccontare? No, non poteva.
Fu questa certezza che fece vergognare Howard Phillips Lovecraft: il non averla fatta propria. Non fece in tempo a dire qualcosa che avesse il suono accondiscendente delle scuse.
Paco corse in suo aiuto, lisciandosi il pizzetto brizzolato.
“Io ora non so cosa credere Howard. So che quello che ho provato è amore vero, so che è stata una cosa tanto forte e per tanti anni, che avrei potuto muovere le montagne per quello che mi batteva dentro. Ma so anche che, superato quello, c’è ben poco che possa scuotermi e muovermi nel profondo. Quindi – sorrise brevemente – per rispondere alla tua domanda, ti dirò che sì: ho amato. So cos’è l’amore, so quanto possa cambiare le persone, so quanto possa non essere riconoscibile nell’attimo, ma quanto possa rimanerti dentro nel tempo e sopravvivere a se stesso. Ho amato una sola volta ed è andata così...Alcune volte mi sforzo di pensare che forse amerò ancora, ma se ci penso adesso, a mente fredda, credo che no, non amerò più. Questa nuova vita che vivo da allora, forse non lo prevede o più semplicemente sono io che non lo prevedo… Alcune volte, poi, penso che dovrei provare a tornare da Ramona. Chissà dopo quindici anni cosa troverei, come la vedrei. E’ un pensiero che scaccio subito, mi sembrerebbe di tornare a voler vivere una vita precedente e non me lo posso permettere…Nessuno se lo può permettere”.
“Superato” Fece quindi Howard che già da tempo aveva recuperato lucidità
“Cosa?”
“Hai detto: “Superato quello”, amico mio” Rilanciò lo scrittore.
“Quindi?” Fece Paco interdetto.
“Hai detto “superato quello”, parlando dell’amore per Ramona. Ne hai parlato come fosse un ostacolo, un impedimento…”
“Non intendevo quello, puoi immaginarlo”
“Immagino che non te ne sei reso conto. Dico questo, perché mi sembra di conoscere questo modo di pensare…” Sorrise Howard questa volta.
“Non era un ostacolo, forse solo un legame in più, uno di quelli che non aveva più senso. Io ero diverso ormai, lei lo era. Rispetto al mio cambiamento…Ma forse, forse sì. Era un ostacolo anche. Qualcosa che mi avrebbe tenuto legato a un vita che non potevo più vivere…Sei bravo ammericano, lo sai?”
“No, è che ora mi sembra tutto così chiaro. Per me e alcune volte, per quelli che mi stanno intorno”
“La tua nuova vita?”
“No, è sempre la mia vita. Solo che ora la vivo, senza mutilarmi”
“Mutilarti? Ti sembra la parola giusta da usare davanti a me?” Rise Paco, agitando un’altra volta la sua destra.
“Hai capito cosa intendo”
“Ho capito, sì… Ma mettiamola in questo modo: senza nessun legame affettivo, ora sono più libero. Vivo come voglio, aiuto chi mi va di aiutare. Compreso te”.
[omissis]
“Sei strano ammericano…” Fece poi Paco, dopo qualche minuto di silenzio, dopo che si fu acceso un ennesimo cigarillo e che Howard fu andato in bagno a sciacquarsi il viso.
“..Vieni qui e mi parli di amore. Mi sembra un argomento così strano da affrontare adesso. Penso che l’amore non sia per tutti. Penso che sia qualcosa che aiuta gli uomini a crescere, a formarsi ma poi…A un certo punto, li abbandona. Quando non serve più. Andiamo poi…Pensi che un uomo di successo abbia l’istinto di amare? Coolidge per esempio? Ama sua moglie? E Villa? Il grande Pancho Villa, pensi che abbia avuto spazio per amare qualcuno? E quell’italiano…Come si chiama? Quello con il testone. Ora che è uno degli uomini più potenti del mondo, credi che abbia tempo per provare certi sentimenti?”
Fece una piccola pausa sorniona, mentre Lovecraft lo ascoltava attento.
“Io non credo – continuò -. Non credo che amare una donna, possa essere un’attività conciliabile con l’esercizio del potere, che possa convivere con il successo, o con una missione, se ce l’hai ed è per te così importante…Ti penso ora: tu scrivi dei racconti incredibili. Scrivere è la tua missione. Da quanto tempo non ami, come hai amato la tua Carlotta?”
Howard pensò a sua moglie e fu attraversato dal fremito, da un istinto di rimorso. Come un senso di colpa languido, frutto dell’inevitabile.
“La mia storia è diversa, Paco”
“E’ sempre una storia diversa, amico mio. Lo è per chi sceglie una vita diversa, non comune”
“Io non sono un uomo di successo” Sorrise sincero lo scrittore.
“Non importa che tu lo sia per gli altri. Hai una passione no? Vivi per quella”.
Lovecraft chinò il capo, pensò alle ultime parole della sua moglie ucraina, pronunciate a Cleveland.
Come suonavano ora?

"...Il tuo scrivere, Howard, è una cosa grande, io sono troppo piccola per te. Lo è il mio talento, la mia emozione che è così diversa dalla tua..."
Le aveva detto Sonia ed aveva ragione.

Poi reagì guardando Paco. “E allora tu? Tu per cosa vivi, cosa ti porta così lontano ora? Sei un uomo di successo? O che missione hai?”
“Io vivo Howard. La mia missione è quella e non ce n’è una più grande di questa. Del sopravvivere intendo. Se poi posso aiutare qualcuno, lo faccio. Non per spirito di carità – sorrise, sbuffando quasi di disprezzo – Di quella non m’importa. Aiutare le persone mi da la sensazione di essere sopravvissuto per qualcosa. Mi fa pensare che la mia presenza qui abbia una senso. In effetti non sono io ad aiutare loro, ma esattamente il contrario”
“Allora con quello che ti ho chiesto ti sto facendo un favore?”
“Beh, diciamo che i favori ce li stiamo scambiando” Sorrise acuto il messicano.

La mattina dopo Lovecraft e Paco de Los Rios si salutarono con affetto, ma senza convenevoli. Si guardarono, si strinsero la mano sobriamente, si sorrisero. Sapevano che si sarebbero rivisti presto ed avevano la certezza che ormai erano coinvolti in qualcosa di importante. Oltre lo scrivere, il tradurre, il vivere la vita degli altri. Fosse stata quella immaginaria dei mostri e degli asciutti eroi lovecraftiani, o quella in molti casi miserabile, inquieta, dei “latinos” che si affidavano alle traduzioni di Paco. Quella ora era anche la loro vicenda, il loro impegno, la loro missione. Un occasione per dare finalmente una forma concreta, materiale, alla loro esistenza. Ciascuno la riconobbe nella vita dell’altro, non pensando alla propria.
Poi Paco fece una cosa che emozionò lo scrittore di Providence: con le sue mani, toccò la destra di Howard e gli depose nel palmo aperto un foglio di carta, quindi lo guardò e gli sussurrò: “C’è il disegno che ti ho fatto l’altra volta, niente di che…”
Howard alzò il capo in segno di saluto. Paco agitò la destra con i tre moncherini.
Il barrìo di New York era assolato quel giorno. Il mento aguzzo di Lovecraft lo attraversò come a fendere l’aria, con passo deciso. La sua figura allampanata e magra, vista attraverso le finestre della casa di Paco, sembrò quasi come quella di un pistone che guizza regolare nel rispettivo cilindro. Girato l’angolo Howard aprì quel foglio di carta, vide il disegno e lesse: “L’uomo delle spine pronto a partire”
Dietro infine c’era una scritta. A Lovecraft parve come una preghiera laica:

“..Beati gli uomini che hanno bandiere e canti con cui riconoscersi nella notte, l'uno con l'altro. Quando non si vede nulla, il rumore è assordante ma sai di appartenere a qualcosa. Beato chi si può stringere al compagno quando ha paura, beato chi può confondersi in cento altri simili a lui e riposarsi sereno. Sotto la solita bandiera, ascoltando il solito canto..”

Howard rise sonoro, buttando lo sguardo verso il cielo, mentre le sue mani tenevano ancora aperto quel foglio: “…Sotto la solita bandiera, ascoltando il solito canto” Sussurrò fra sé, senza timore che qualcuno lo ascoltasse.


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martedì 4 agosto 2009

L'occasione della forma 23^ - Il "forse" non basta


Pablo aveva mani esperte e nodose, che muoveva agili che come fossero, a piacere e secondo utilità, cesoie, piuttosto che unità di misura, o magari uncini al posto che ferri da stiro. Era la sua abilità: quella di maneggiare le stoffe e i tessuti. Di plasmarli a misura delle proprie esigenze, dell’utilità del cliente. Faceva tutto o quasi meccanicamente, fino al momento in cui la sua piccola “genialità” non saltava fuori, nell’aggirare un ostacolo: una forma diseguale fra una scapola e l’altra, un giro vita sproporzionato da mascherare con un risvolto nascosto nelle pieghe di un pantalone, una giacca da modificare al modificarsi delle pinguitudini. Orpelli, giochi di fibre e tessuti, di aghi e di filo, di macchine da cucire, manovrate con olio di gomito. Pablo era un uomo che sapeva ascoltare e tacere, tagliare e strappare, ricucire e riadattare. Scelto per la sua bravura e la consapevole sapienza dagli uomini più potenti della Catalogna che da lui trovano abiti confezionati su misura e quelle poche parole illuminanti di uno che sa tutto, che non vorrebbe sapere e ancor meno dire. Personaggio che per le sue conoscenze poteva molto nell’accedere direttamente al potere, senza di questo desiderarne far parte.
Quel pomeriggio, Pablo “manos calificados”, ospitava nel suo laboratorio un seminarista prossimo ai voti. Un ragazzo magro e pallido con uno sguardo un po’ smarrito e poche parole incerte. La necessità era quella di riattare un vecchio abito nero nella foggia e nello stile dei preti giovani. Di quelli che si sa: ben difficilmente avranno porte aperte alla carriera ecclesiastica, perché in arrivo da polverose province, piuttosto che da fame e indigenza più assolute.
Prese le misure dei pantaloni, della camicia, poi afferrò la giacca del giovane, mentre questi, distratto dai movimenti sapienti del sarto, non fece il gesto di impedirglielo con eccessiva foga. Fu un agitarsi istintivo, privo di rabbia o cattiveria, ma denso di pudore e imbarazzi improvvisi in un istantaneo “tira e molla” da cinematografo.
Dalla tasca interna dell’indumento caddero una, due, tre fotografie dai bordi sfrangiati. In un silenzio assoluto, per qualche secondo Pablo rimase fermo con la manica della giacca in mano a osservare quelle figure rivoltesi a faccia in su dal pavimento. Stette così, per un tempo brevissimo che sembrò al giovane quasi prete, una vita interminabile.
Lo sguardo del sarto andò poi fugace al viso paonazzo del giovane e di nuovo al pavimento. Dove il tempo dell’immobilità finì nell’atto lento e sereno di chinarsi, impilare indifferente le fotografie e riconsegnarle al giovane. Senza fiatare.
“Queste..Queste non sono mie” Fece il prossimo sacerdote con ansia trasparente.
“Non importa. Non importa” Tagliò corto Pablo il sarto, mentre un sorriso bonario e carico d’indulgenza canuta ammantava il giovane uomo di chiesa.
“Potrò contare sulla sua discrezione Don Pablo?”
“Non esiste discrezione. Non serve. Io non ho visto niente”.
Sarebbe bastata una frase sussurrata a un monsignore, piuttosto che a un alto prelato nell’atto di riadattare una manica e l’accesso al sacerdozio di quel giovane magro come uno spaventapasseri, sarebbe stato impedito per sempre. Ma Pablo, il sarto di Cadaquès, tacque sereno. Per carattere, prima ancora che per indulgenza.
Non parlò mai con nessuno di quel seminarista, ormai sacerdote, che viaggiava con delle fotografie pornografiche nella tasca interna della sua giacchetta nera, più volte riadattata. Non parlò delle proprie perplessità, non indugiò nel proprio sconcerto. Non giudicò e non volle che altri giudicassero. Più volte negli anni, alle visite di quel prete che si faceva largo nelle gerarchie della curia, pensò a quel pomeriggio insolito nel suo laboratorio. Ma furono pensieri che rese sterili per precisa volontà.

“Torni Amancito?” Le aveva chiesto ironizzando Estrela quella mattina
“Certo…Perché non dovrei?” Le aveva rimbeccato, tutt’altro che leggiadro, Esteban.
“No, te lo chiedo perché vorrei cambiare le lenzuola” Aveva rilanciato, feroce, la ragazza.
“Lascia le stesse” Aveva troncato lui, accigliandosi.
Non aveva sognato braccia al collo o imprevisti e consolatori appoggi, ma almeno avrebbe avuto desiderio di non esser canzonato. Non ora, non prima dell’Eminenza…
“Ma forse Estrela non si rende conto…”. Si era quindi rassicurato, infilando la calle in direzione del suo incontro.
“…O forse si rende conto fin troppo bene”. Gli era rimasto il dubbio.
Poi il pensiero consolatorio era scivolato di nuovo a quell’amore fisico che non bastava più a Esteban Labruna, pur appagandolo al punto da non sentir bisogno di altre scorribande, ma che in fondo rappresentava una parte sola di quell’appartenenza reciproca di cui voleva, come pulsione in lui nuova, che quell’amore si nutrisse. C’era il letto di Estrela, c’era quel dialogo contraddittorio e conflittuale, così vivo, così sensuale; c’era però dell’altro. Che a Esteban Labruna sfuggiva. Una parte di anima della donna bellissima che amava e che non aveva proprio colto e che non finiva, anche in quella mattina di agitazione, di rendere sconcerto le sue certezze.
“Torni Amancito?”
“Cazzo se torno. Torno. Torno. Torno”.
In quell’istante senza rendersene conto, Esteban Labruna, prese a strizzare gli occhi ogni manciata di secondi, come a irrorare occhi asciutti e fastidiosamente spalancati. Istinto di cui ebbe la percezione solo dopo un’ora, mentre camminava spedito alla volta della curia. Non gli capitava mai, non erano bisogni, ne atteggiamenti, di cui aveva conoscenza. Pensò che molte cose stavano cambiando. Definitivamente. E che quella non era che l’imprevista reazione di un corpo che ora si metteva davvero al servizio di un cuore. Di un’anima. Giusta o sbagliata che fosse la ragione che lo spingeva.

“Non c’è da aver paura ora Esteban. Non devo piangere sulle conseguenze delle mie scelte. Ho bisogno di tutto me stesso”. Così si ripeteva il giovane Labruna nello stanzone, seduto sulla panca di legno, mentre faceva anticamera all’eminenza. Non aveva mani sudate, ne somatizzazioni esplicite delle sue paure. Solo agitazione e voglia di essere altrove. Tanta voglia.
Così si perse a osservare quelle pareti bianche, coperte solo da vecchi dipinti di prelati e alti membri delle gerarchie ecclesiastiche catalane. Volti scavati spesso; arcigni sempre. Come potesse Dio albergare in quei visi, fra le pieghe di quelle espressioni innaturalmente aristocratiche, in quelle vesti nere come la pece, dai colli a volte pomposi e civettuoli, era una domanda che Esteban aveva cominciato a porsi pochi mesi prima. Al contatto con la sua “Eminenza”, ma soprattutto con quella croce argentea che gli pendeva dalla catena al collo. La magrezza ossuta di quell’uomo, aveva pensato la prima volta, non prometteva nulla di buono; così come quel naso adunco che pareva una vela tirata e tesa al vento del golfo catalano.
Il bianco di quelle pareti era fresco di mano, velocemente dato. Come a coprire in fretta e furia, inserzioni muffose secolari in quell’edificio, ma su quel punto della propria immaginazione l’architetto stette, rendendosi conto di essere sul cammino dell’esagerazione. Il vero problema, forse, non erano quei volti nei ritratti, ne i loro abiti, ne tantomeno le loro pose, o quel bianco. Il punto erano le sue paure, adesso. Pensò, in quell’interminabile anticamera, che è in quelle circostanze che i veri “ribelli” si vedono. Quando l’inevitabile gli presenta il conto del loro, presunto, coraggio. Giacché non esiste coraggio al momento dell’azione, ma solo al momento di quel subire, che potrà essere immediato o differito, ma che ne rappresenta naturale conseguenza.
Sulla parete di fronte, poi, il giovane Labruna non poté non notare un imponente ex voto incorniciato e appeso in bella vista fra tutte quelle angoscianti figure. Qui, incorniciata, si trovava l’amata bandiera catalana a sottili strisce orizzontali giallo-rosse, sormontata da una spessa croce d’oro e una scritta al di sotto. In caratteri dorati su sfondo a strisce azulgrana : “Els catalans a Nova York, per la fe de la seva mare pàtria català” c’era scritto.
Fu una visione che gli diede forza, ma non per ragioni nazionalistiche, o di devozione alla propria patria come ebbe a credere lui stesso, in un primo momento. Semplicemente perché innestò nella sua mente concentrata e viva, un seme solo apparentemente invisibile. Come un’idea che sorge piano, ma comincia a erodere preclusioni e preconcetti. E a farsi largo.
Poi lo stesso “bassotto” con le lunette che lo aveva avvicinato al cantiere per dargli appuntamento, comparve dietro la pesante porta.
“Prego signor Labruna, si accomodi. Sua eminenza l’aspetta” Disse, quasi sussurrando con un sorrisetto angosciante. Esteban si mosse.

“Bene signor Labruna, andiamo male. Molto male. Lei lo sa. Vero?…” L’alto prelato lo aveva fatto entrare dopo oltre un’ora di attesa. Si fece trovare in piedi dietro la sua pesantissima scrivania di mogano intagliato, con la solita espressione perentoria. La croce era rimasta ferma al centro del suo ventre inconsistente, sotto quella veste orrenda.
“…No, non dica nulla. Non ho voglia adesso di ascoltare la sua voce – lo aveva interrotto bruscamente, senza fargli proferire parola -. Mi da ai nervi. Ho voglia solo di parlare. L’ultima volta Labruna sono stato troppo indulgente con lei. Lo so…Lo riconosco.. E’ un mio difetto. D’altra parte sono un uomo di chiesa e per noi, nella nostra posizione, è sempre molto difficile indugiare in atteggiamenti aggressivi…”
“Io...”
“Stia zitto! Deve stare zitto! – lo aveva interrotto al solo prender fiato, prima di parlare - . Ci sembra sempre di andare contro ai precetti verso i quali abbiamo giurato obbedienza e fedeltà, come tramite della nostra ascesa verso Dio. Nondimeno alcune volte, questa diventa vanagloria. Quando pretendiamo di rimanere ossequiosi ad esse, nonostante la nostra natura umana. In sostanza, Labruna: siamo uomini. Dio ci ha creato così e ci mette alla prova ogni giorno. Ogni giorno…Qualche volta le nostre pulsioni, anche le più insane, sono vinte. Alcune volte, troppe volte, no e diventiamo…Torniamo a essere uomini fra gli uomini.
Ora può parlare architetto, ma per rispondere solo alle mie domande. Non voglio sentire altro da lei. Mi dica, ora: preferisce che le parli da uomo, o da uomo di chiesa?”
“Non so, eminenza…Non so. Immagino che lei già sappia…” Esteban era rimasto in piedi a due metri dalla scrivania. Rigido, serio, deciso.
“Sento che la sua impertinenza non l’abbandona, ragazzo mio. Ma in fondo ha ragione. Io già so e so che devo parlarle da uomo. Dio forse lo vuole”.
Poi si fermò, sedendosi e incrociando le braccia sul ventre, con i gomiti agli imponenti braccioli.
“Allora Esteban. Dov’è finito Antoni Gaudì?”
“Non lo so”.
Il prelato allora apri uno dei suoi cassetti e ne trasse un plico. Lo aprì, s’inumidì le labbra e quindi lesse.
“Hotel ristorante Mondragon. 12mila e 173 Pesetas…Vorrei capire Labruna come possa un giovane come lei, che ha casa, spendere così tanto in alberghi e ristoranti…Le ripeto la domanda: dov’è finito Antoni Gaudì?”
“Eminenza, le giuro che…”
“Bodega Quitoz. Bodega Irureta. Bodega de Los Diablos…Interessante questo nome…Totale: 17mila e 154 Pesetas…GAUDI?”
“Non lo so, è la verità”
“Questa è formidabile: sarto Abel Munoz, 8mila e 72 Pesetas. Lei, il figlio di un sarto. Se suo padre potesse vederla. Meno male che non può…Mi dica: quanto guadagna lei al mese al cantiere? Quanto NOI abbiamo stabilito guadagni?”
“830 Pesetas al mese, eminenza”
“Uno stipendio da architetto vero. Ma lei non è un architetto vero…LEI ERA LI’ PER ANTONI GAUDI’…NOI CE L’ABBIAMO MESSA!”
“Sì, ma io non l’ho più visto da quando l’ho riportato allo studio”.
“Bugiardo infame!”
“Eminenza…”
“Non esiste un eminenza ora, qui. C’è solo un datore di lavoro che lei sta tradendo. Che ha già tradito. Cominceremo con le piccole cose, Esteban Labruna. I conti che le ho detto non verranno saldati. Da domani lei è un uomo fallito. Si dimentichi della vita precedente, si dimentichi del lusso, delle sue donnacce, dei viaggi e della cerveza…Si dimentichi! Si dimentichi!”
“Va bene. Ma io non so dov’è il maestro Gaudì”
“No, lei lo sa! Lo sa! Perché è da giorni che non si fa vedere al cantiere; è da giorni che finge solo di tornare a casa, per poi uscire come un ratto quando nessuno la vede..E’ da giorni che appare e scompare. Questa cosa è inaccettabile e la pagherà cara”.
“Come posso farmi credere?” Esteban fu abbastanza lucido da simulare paura vera, imbarazzo.
“Lei non deve farci credere nulla. Lei deve portare risultati. Subito! SU-BI-TO. Non abbiamo più tempo per aspettare… E neanche lei ne ha. Ora non ha più un soldo, nemmeno credibilità. Ha solo la scia dei suoi creditori che domani verranno a cercarla. Mi porti Gaudì subito”.
Esteban pensò al letto caldo di Estrela, alla sua casa, al suo rifugio. Lo fece per farsi forza, per non indugiare. Per quanto, se si fosse lasciato andare, forse non avrebbe avuto davvero bisogno di simulare paura.
“Ma dove posso cercarlo? Io non so come sia sparito.. Chi l’ha portato via. Magari ha capito ed è scappato- il suo tono cercò di farsi confidenziale -..Magari è stata tutta una farsa per levarsi da ogni impiccio. Forse ora sta ridendo di noi, del cantiere. Cosa posso saperne io? Io ho fatto quello che dovevo. L’ho raccolto in stato confusionale, l’ho riportato allo studio, ho cercato di evitare uno scandalo, come avreste fatto voi eminenza. O no?”
“Quello che avrei fatto io non la riguarda e non può saperlo. Ma a me non importa, come ha agito lei è sospetto Labruna, molto sospetto come può essere un uomo che è pagato profumatamente per agire, per sapere…”
“Per fare la spia, brutto verme” Pensò l’architetto, all’ennesimo strizzare di palpebre.
“..Per riferire. E invece non ha fatto e non ha saputo niente. La fiducia nei suoi confronti adesso è nulla. Lei come minimo è uno stupido lascivo. Ma l’avverto: io non sono tanto convinto che lei sia così… Io credo che lei stia tramando qualcosa. Probabilmente gira tutto intorno al danaro, allora adesso sappia che di soldi non ne ha più e non solo…”
Esteban, in piedi, rigido come un palo, chinò furbescamente il capo.
“Lei non può sapere. Non sa che io non sono da solo. E devo rendere conto a persone più importanti di me. Gente che non scherza, Labruna. Che non agisce per conto di Dio, ma solo per quello: per il denaro…Le auguro che si accontentino delle sue parole, delle sue chiacchiere. Glielo auguro, ma sinceramente non lo credo”
“Quali altre persone?” Fece Esteban sinceramente stupito.
“Non le interessa. Le interessa che io non potrò riferire altro che quello che penso. Cioè che lei sa molto di più e non lo vuole dire..”
“Lei si sta sbagliando, Eminenza. Sta facendo un grosso errore. Io non so proprio nulla… Se quello che dice è vero, sta mandando alla forca un innocente. Davvero”.
“La forca Esteban? Esistono cose peggiori della forca, lo sa? Esiste l’annientamento sociale, forse anche fisico. Assoluti. Esistono vite mutilate…Accetti un consiglio, si protegga ora: mi dica dov’è Antoni Gaudì”
“Non lo so. Lo sapessi…In questi giorni potrei impegnarmi ancora di più, questo potrei fare. Potrei impegnarmi ancora di più…”
“Non basta Labruna. Ci vogliono cose concrete. Fatti”
“Lo so, lo so…Potrei almeno sapere da chi devo guardarmi, eminenza? Potrei?”
“Non glielo posso dire, Esteban.. Le dico solo che il cantiere muove molti soldi. E i lavori sono troppo lenti. Troppo. Lei non ha bisogno di sapere altro. Segua i soldi Labruna…Segua Gaudì, anzi: me lo porti. Risolverà tutti suoi problemi. Di soldi, di futuro. Lei vuole un futuro in questa città, Labruna?”
Esteban chinò il campo in segno di assenso.
“Bene, allora faccia qualcosa. Sappia che se Gaudì per noi rappresenta un simbolo insano e fallace che va privato dell’aurea di santità che il popolo gli sta disegnando attorno, per alcuni è solo uno strumento ormai vecchio. Che non serve, che è diventato anzi dannoso per un cantiere che non procede e prosciuga molte casse. Non solo quelle della curia che io rappresento.
I soldi per noi sono solo un strumento per permetterci di sopravvivere in tempi troppo inquieti, anche politicamente. Ma per molti il denaro è una ragione di vita.
E’ da questi, ora, che deve guardarsi Esteban. Lo faccia per se stesso, per il suo futuro. Io solo questo posso dirle adesso. Conoscevo suo padre, sin dai tempi dei miei voti. Era una brava persona, un uomo umile e molto capace, discreto.
Le dico questo non perché lei se lo meriti, lei non vale un unghia di quell’uomo. Glielo dico per quell’antica amicizia che mi legò a suo papà”

Un’antica amicizia nata dalla scoperta di foto sconce, beffardamente comparse sul pavimento di una sartoria catalana d’inizio secolo, fiorita sulla riconoscenza, affermatasi sui silenzi operosi di un sarto dai capelli e dalla barba bianche, sedimentatasi sul ricordo d’interminabili pomeriggi a provare e riprovare abiti talari, sempre più lussuosi e importanti negli anni. Un amicizia che per Pablo Labruna non fu mai davvero tale, nell’ambizione del sempre meno giovane prete e in quella sua insana tendenza all’arroganza che resero i silenzi del sarto ben più significativi nei lustri. Più volte Pablo Labruna si era domandato negli anni se avesse fatto bene a non stroncare la giovane carriera ecclesiastica di quell’individuo magro e inquietante. Più volte, altrettante volte, la risposta che si era dato era il frutto del proprio carattere. Mite, equilibrato, pragmatico.
“Chi sono io per decidere se quest’uomo ha lo spessore, la dirittura morale per arrivare dove sta arrivando?”
Ne aveva quindi osservato le movenze sempre più altere, gli atteggiamenti sempre più distaccati, i gesti sempre più innaturalmente generosi, come se non fossero mai il frutto rigoglioso di una pace e di una vocazione interiori, ma lo stridente getto di una scelta fin troppo lucida. Quella di essere pio, perché quello era il “vestito” che gli era richiesto.
Pablo Labruna “Manos calificados” non lo biasimò mai davvero, solo che per vent’anni si domandò da uomo sinceramente timorato di Dio, perché fosse stato scelto proprio quel sacerdote. Per scalare le vette della curia, per intraprendere una carriera che sembrava davvero non avere limite. Nel potere, nel prestigio, nel tempo.

“Le dico una cosa ora Esteban…- Aggiunse infine l’eminenza- Tanti anni fa, suo padre Pablo, si mostrò gentile e indulgente con me. Poteva non esserlo. Oggi io gli restituisco quel gesto e la lascio andare senza conseguenze che non quelle di farla diventare povero, come merita. Le dico di portarmi Antoni Gaudì, glielo chiedo come amico, ma immagino che non lo farà… Quindi l’avverto, non è più da me che deve guardarsi. Io non farò più nulla per lei. Nel bene, nel male. Con questo il debito con Don Pablo, suo padre, è saldato”.
“Sta bene, eminenza”
Esteban Labruna dopo un breve cenno del capo si girò e se ne andò senza voltarsi.
Attraversò gli ampi saloni della curia con le loro innaturali pareti bianche, non badò ai pomposi e inquietanti dipinti dei prelati, dimenticò quel luogo che gli era parso aggredirlo ogni volta che ci era andato. Sentì come un peso che si sgravava, come una pietra, rimasta troppo tempo, al centro del petto, che finalmente scendeva fino alla pancia per prepararsi ad essere espulsa. Respirò come di liberazione, bloccò il pensiero sulle ultime parole dell’eminenza.
Dimenticò, per un attimo, tutto ciò che d’inquietante era emerso da quella conversazione quasi surreale, dove era sgorgata quella parvenza di umanità da parte di un uomo che sembrava non averne, sull’onda emotiva, impercettibilmente passionale, di quell’antica amicizia con suo padre.
Poi il suo stato d’animo planò dove era germogliata un’altra serie di pressanti paure. Ancora più ignote, ancora più attanaglianti.
Qualsiasi cosa avesse deciso di fare, avrebbe dovuto farlo presto. Giunse a questa conclusione, mentre infilato l’ultimo porticato, si tuffò nel sole di quella solita Barcellona calda e accogliente. Rimase fermo un attimo come a volersi godere quei raggi che gli toccavano la fronte, quindi corrucciando le sopracciglia folte, girò lo sguardo verso sinistra, verso il poderoso monumento che si stagliava al centro del cortile e alla sua ombra che si allungava fin quasi a toccargli i piedi. In mezzo a quella, appoggiato schiena al piedistallo, c’era Guillermo con la sua moto, rovinata a terra.
Lui lo guardava e sorrideva.
“Beh, sei ancora vivo Esteban? Noi pensavamo di dover entrare con il mezzo e venirti a salvare”
“Sono ancora vivo Guillermo. Ma ho bisogno di scrivere”
“Cosa, una poesia?…Ti abbiamo fatto venire voglia di cimentarti eh?”
“No, devo scrivere una lettera. Anzi, mi dai un passaggio fino dove ti dico io?” Domandò avvicinandosi.
“Certo. Dovunque tu voglia. Via lenta o via veloce?” Rilanciò il pittore, mentre sollevava la pesante motocicletta con una facilità disarmante.
“Preferirei la via più sicura”
“La via più sicura non esiste, caro Labruna. E’ solo la velocità che, accorciando idealmente gli spazi e i tempi degli spostamenti, fa diminuire il rischio di sinistri”
“Tu vaneggi Benitez, lo sai?”
“Lo sappiamo che tu lo pensi”
Saltò in groppa alla motocicletta di Guillermo, chiuse gli occhi. “Cieco” diede indicazioni al centauro su dove potesse lasciarlo. Giusto a due isolati dalla casa di Estrela, solo per un eccesso di prudenza, anche se ormai capiva che di Benitez de Alphonsine poteva fidarsi e avrebbe potuto fargli tranquillamente vedere dove dormiva da giorni.
Il viaggio attraverso Barcellona fu l’ormai solito turbinio scoppiettante di polvere sollevata, bestemmie di passanti e automobilisti quasi investiti e angoli di case sfiorati. Ma Esteban non ci badò come la prima volta sulla costa catalana. Aveva altro a cui pensare, ancora gli rimbombavano nelle orecchie le parole dell’eminenza. Ancora capiva nelle mani di chi, ora, fosse passata la “pratica” del suo maestro Antoni Gaudì. Banchieri, imprenditori, speculatori di ogni livello avevano, con il tramite degli ignari gesuiti, finanziato quel cantiere, quell’opera dedicata a Dio.
Qualcuno di loro, probabilmente tutti, giudicò, non tolleravano più alcun ritardo nell’innalzamento della struttura. “I soldi – si disse Esteban avvinghiato a Guillermo sulla moto rossa - ..Sempre quelli. Al centro della mia vita, della vita di tutti. Anche di Don Gaudì. Suo malgrado, malgrado la sua grande anima, il suo talento. Sono come lo scolo di lavandino…I soldi attirano, fagocitano e ingoiano tutto ciò che c’è di umano. Io lo so bene”
Da quel giorno Esteban sarebbe stato povero. Se ne rese conto sulla moto di Guillermo, non ebbe paura di quello. Provò solo l’inquietudine di chi si affaccia a una nuova vita e non sa davvero cosa lo aspetta. A 23 anni, il giovane Labruna, aveva azzerato tutti i propri valori e i propri mezzi. Economici, morali, sociali. Cosa gli rimaneva? Una donna che non poteva essere la sua, un nuovo amico a metà fra il pazzo e il talentuoso, un maestro troppo importante da salvare. Poco prima dell’arrivo a destinazione si disse che comunque avrebbe potuto ripartire da se stesso, una volta che tutto fosse finito. Una volta che Don Gaudì fosse stato al sicuro, che avesse chiarito il proprio futuro nel letto di Estrela. Breve o lunghissimo che potesse rivelarsi.
Poi Guillermo frenò bruscamente, si alzò gli occhialoni sulla fronte e sorrise.
Così visto, poteva sembrare persino bello, se non fosse stato per quella cicatrice ancora rossiccia che gli solcava la guancia destra, come una serpe errabonda.
“Labruna, ricordati che stasera è LA SERA. Il maestro domani continua il suo giro per Madrid. Se vuoi parlargli devi farlo stasera. Passerò da te dopo cena, fatti trovare pronto..Va bene qui?”
“Sì, va bene in questo posto. Ci sarò” E si avviò con passo veloce verso il suo rifugio.

“Ah sei tornato? Bene” Gli sorrise la ragazza portoghese tutta agghindata
“Sì, e tu che fai? Ti prepari a far serata?” Rilanciò lui ancora arrabbiato per la cattiveria inopportuna di quella mattina.
“No, vado al bagno turco. Da quando sei qui non ci sono andata una volta, ho voglia di prendere aria”. Fece lei ondeggiando leggermente, come a farsi meglio ammirare. Un gesto di civetteria che le calzava bene.
“Brava, vai: io ho da fare…” Tagliò corto Esteban quasi arrogante, ormai di nuovo sereno “Anzi, volevo chiederti se avevi della carta da lettera”.
“Se scrivi ricordati di tutte le parole. Tieni ben aperti gli occhi..” Rilanciò ironica la ragazza.
Esteban scrisse a fatica, in uno spagnolo macchinoso, tipico di chi non era avvezzo alla scrittura, alla composizione prosaica. Scrisse di getto, con la foga frustrante di chi vorrebbe argomentare, spiegare, agire velocemente, ma è costretto dai propri mezzi limitati a glissare, ripensare, rallentare la propria azione.
Esteban scrisse però, con la lucidità che non aveva mai avuto, con il periodare macchinoso eppur fluido di chi non è avvezzo a comunicare. Sensazioni, speranze, paure finanche.Un periodare che si assestava, mano mano che la sua lettera prendeva corpo, passando dal suo ingegno, alle sue pulsioni. Scrisse di getto, con qualche errore ortografico, in uno spagnolo che alternava maniera a volgare, istinto a nozioni tecniche chissà come assimilate. Nelle discussioni con gli scrittori sulle ramblas, piuttosto che sulle brochures distribuite all’entrata dei varietà. Ci volle poco, in fondo, solo agganciare il proprio desiderio più pressante alla propria testa. Senza filtri.
Estrela lo osservò di nascosto qualche minuto dalla porta socchiusa, senza timore di essere scorta. Un po’ stupita, un po’ ammirata, come una mamma che spia il proprio bambino, alle prese con i primi giochi solitari, seduto per terra. O come si guarda una persona che si avvia a diventare quello che non è mai stato. A prender forma di uomo adulto che si cimenta in azioni e volontà non più da ragazzo dissoluto.
Alla sua lettera, infine, pensò mancasse qualche indicazione fondamentale. Giudicò che sarebbe bastato verificarla e prepararsi, prima di inviarla; stette così, sul pensiero di Guillermo che lo avrebbe atteso all’ora dell’appuntamento.

“Il nostro maestro è in ritardo – disse Guillermo, seduto sulla sua moto appena vide comparire Esteban, al luogo dell’appuntamento serale – Ha accumulato un ritardo di ore, sin da questa mattina sul programma delle visite a Barcellona. Gli abbiamo detto che era assolutamente indispensabile che ti parlasse. Ma dobbiamo aspettare qualche ora…”
“Qualche ora? - Fece l’architetto sconcertato - Ma sono già le nove di sera. A notte fonda avrà voglia di parlarmi, di ascoltare?”
Benitez rise grasso e poi aggiunse : “Notte fonda eh.. Non ci sono problemi. Non credo che lui riesca a dormire più tre ore per notte. Dice che dormire è tempo sprecato e che anche la notte è stata fatta per agire, pensare, progettare. Noi siamo d’accordo con lui. La notte è inutile, se non si sta svegli… Piuttosto Labruna, dobbiamo trovare il modo di ammazzare il tempo. Hai in mente qualcosa?”
“Certo che ce l’ho. Devo andare a verificare una cosa. Ti piacerebbe fare un giro al porto?”
“Ti portiamo volentieri. Cosa devi fare?”
“Lo capirai quando saremo là”.
“Naturalmente non mi dirai cosa c’è in quel sacchetto”
“E’ inutile che te lo dica amico mio. Lo vedrai” I due si sorrisero.
Guillermo Benitez de Alphonsine, dopo aver di nuovo calato i suoi occhialoni da aviatore sulla fronte, scaricò tutto il proprio peso sul piede destro, diede di manopola, e quel marchingegno rosso fuoco cominciò a rombare e sobbalzare. Di nuovo. Per la prima volta a Esteban quell’immagine non mise paura. Anzi. Benitez gli sembrò davvero un cavaliere d’altri tempi, come un mercenario pesantemente bardato, cooptato alla sua protezione. Fu un pensiero rassicurante e ingiusto, si disse, mentre cavalcò la moto alle spalle del compagno.
Ma Guillermo non era un mercenario, non era cooptato. Era un uomo d’istinto, di feroce abnegazione, di coraggio insano. Un uomo, un artista strampalato, che non era stato “cooptato” da niente e nessuno, perché nulla poteva costringerlo ad alcunché. Aveva sposato la sua causa, semplicemente. E lo aveva fatto d’istinto. Troppo complicato sarebbe stato, infine, capire cosa poteva averlo spinto a questa pericolosa dedizione il giorno prima, mangiando susine sulla spiaggia, dopo l’ennesima folle cavalcata fra le curve della costa catalana. Esteban si disse che comprenderlo non faceva parte delle proprie facoltà e che a nulla sarebbe servito chiederlo con un semplice: “Chi te lo fa fare?”. Ebbe la sensazione che Guillermo non voleva gli fosse chiesto, perché il chiederglielo avrebbe in lui suscitato pensieri insani, inadatti al suo agire d’impulso. Chissà, valutò mentre il mezzo guidato da quel centauro sfregiato aumentava la velocità, forse quella semplice domanda lo avrebbe offeso o lo avrebbe, peggio ancora, indotto a valutazioni del proprio impegnarsi troppo ardimentose per la filosofia di vita alla quale si era votato.
Quindi non chiese. E mentre la moto scendeva verso il porto di Barcellona, si limitò a studiare, ricordandole, le espressioni del suo nuovo amico, subito dopo averlo messo al corrente del proprio impegno verso Antoni Gaudì. Giudicò di essere stato fortunato e di aver visto giusto, nel confidarsi con lui.

Mentre il sole dell’una picchiava forte sulle loro teste e la moto rossa di Guillermo si arroventava in sosta, il poeta pittore aveva ascoltato con un sorriso inquieto, fissandogli quegli occhi azzurri addosso senza per questo metterlo in imbarazzo. Il centauro, mentre Esteban spiegava non senza un po’ di vergogna il motivo di quella visita, lo aveva interrotto una sola volta:
“Gemelli metalli.. ti piace davvero?”
“Sì..Io non ho cognizione di arte, non sono così esperto come ho voluto farti credere. Ma quel quadro mi da emozione. Credo che, proprio per questo, posso dirti sinceramente che mi piace davvero”.
“Bene. Ve lo regaliamo lo stesso e abbiamo intenzione anche di aiutarti per quello che riguarda il tuo maestro…Abbiamo un maestro anche noi. Anche noi faremmo di tutto per salvarlo. Non importa chi lo minacci, proprio non importa Esteban…”
Così il giovane architetto era andato avanti a raccontare e aveva spiegato di che natura poteva essere l’aiuto che gli chiedeva. Aveva parlato calmo, buttando lo sguardo ogni tanto verso il mare della Catalogna, verso i pescherecci ritardatari che in lontananza rientravano dopo la pesca della notte, verso i pochi bagnanti sugli scogli, verso un orizzonte che sapeva, anche se questa cosa non poteva piacergli, non poter essere così profondo come aveva sperato. Per Don Gaudì, principalmente. E poi per se stesso. Ora che amava sul serio, adesso che aveva abbandonato una vita di stravizi e lussi che aveva rischiato di renderlo un vegetale, prima ancora, o al posto, di essere diventato un uomo. Di sé, non per uno slancio di eroismo romantico che nemmanco sapeva cosa potesse essere, gli importava poco in quel momento. Ma aveva bisogno di aiuto per qualcuno di molto più importante…
“Guillermo, lei mi aiuterà allora?…Ho bisogno di incontrare il suo maestro. Ho la necessità che mi ascolti, che mi dia appoggio, in qualsiasi forma lui creda. Sarà possibile? So che sarà in città domani…”
“Sì, sarà qui. Inizialmente avrebbe dovuto dormire da noi, ma poi ha deciso di appoggiarsi in un albergo del centro. Ci siamo offerti di portarlo in giro, ha preferito fare da solo. Ma questo favore ce lo deve lo stesso…Per quello che stiamo facendo qui, in Catalogna, per il nostro movimento. Ce lo deve proprio. Appena tornati scriveremo un biglietto da lasciargli in albergo. Gli spiegheremo di questo “aiuto” di cui ha bisogno Antoni Gaudì, per il tramite del suo più caro amico…”
“Io non sono il suo più caro amico…”
“Oh Esteban Labruna. No so se sei più ingenuo o più furbo– sorrise bonario Benitez –. Tu sei davvero il suo più caro amico. Anche se Don Gaudì non lo sa…”
Poi ci fu silenzio. Quindi Guillermo dettò alcune istruzioni strategiche al suo compagno di viaggio. Come avrebbe dovuto presentarsi all’italiano, maestro d’arte e di pensiero, quindi spiegò che le ore migliori per incontrarlo sarebbero trascorse nella sera successiva. Labruna prese nota mentalmente e non obiettò su nulla. Solo una cosa finì per farlo vergognare un’ultima volta e sconcertarlo nel suo sincero pudore.
“Il maestro è l’uomo più intelligente che io conosca –aggiunse quasi sussurrando Guillermo, mentre i suoi occhi azzurri si puntavano per la prima volta verso il mare – Non mentirgli come hai fatto con me. Non esistono scorciatoie. La via più breve e diretta, la più veloce con lui, è sempre la migliore. Anzi l’unica”
Esteban chinò il capo e annui. “Sempre la velocità eh..” Aggiunse consapevole
“Un’ultima cosa Labruna: quando ti rivolgerai a lui chiamalo “Eccellenza”… Non lo ammetterà mai, ma a lui piace”

In quella sosta al porto di Barcellona quella sera Esteban fu veloce: entrò con passo risoluto in una bianca palazzina dal vago stile coloniale, che spiccava per vivacità di luci alle finestre. Ne uscì circa mezz’ora dopo, infilandosi un plico nella tasca interna della giacca. Sorrideva di un sorriso strano, come quello di una persona che si leva un peso e, nel farlo, prova anche dolore.
Nella sua ruvida e caustica percezione, Guillermo lo giudicò come il sorriso interdetto di chi ha mal di denti, mentre si siede sulla sedia del dentista.
“Poi mi spiegherai cosa siamo venuti a fare qui?”
“Certo, ti dirò tutto”.
“Bene. Io direi che è l’ora. Andiamo all’albergo del mio maestro. Tieniti forte, ho voglia di correre”
“Guillermo, posso chiederti una cosa?”
“Chiedi”
“Da due giorni ho sempre la sensazione che giochi ad accumulare ritardi, per poi correre. Mi sbaglio?”
“No, Esteban. Non ti sbagli. Se non c’è bisogno di essere veloci, questo bisogno lo creiamo. Ci aiuta a essere noi stessi”.
Esteban scosse la testa, mentre si appoggiava alle spalle possenti di Benitez e lo cingeva in un abbraccio di ritrovata inquietudine, per il sospetto di un’altra gimcana fra le calli di Barcellona.

“Guillermo Benitez de Alphonsine!”
“Eccellenza, grazie per essere qui”. Il pittore si era avvicinato con occhi luminosi e mano destra protesa a quella figura vivida e magrissima che sedeva, gambe accavallate, su un’ampia poltrona di velluto verde. Il soggiorno della suite era illuminato a giorno. Nella stanza, una leggiadra figura femminile dal capello “alla maschietto”, armeggiava di spalle al mobile bar.
La stretta di mano, nonostante il maestro non si fosse alzato, fu energica da parte di entrambi. Esteban rimase in piedi a osservare la scena.
L’italiano con i suoi baffetti ben curati teneva elegantemente nella destra un boulon di cognac appoggiato al bracciolo della poltrona. Il suo piede destro si agitava freneticamente.
“La visita a Barcellona è stata proficua – lanciò subito, in uno spagnolo chiaro – il nostro movimento qui è ancora in crescita. Quanto di questo lo si deve a te, me lo spiegherai domani mattina con calma…”
“Maestro questa città è ancora ricettiva. C’è ancora molto da fare, anche se molto è stato fatto”
“I tempi giocano a nostro favore, Benitez. Il cambiamento che è in atto gioca a nostro favore”
“Non tutti i paesi sono l’Italia, Eccellenza”
Esteban si stupì di quel modo diretto e vagamente impertinente di porgersi da parte di Guillermo che si sarebbe atteso più sussiegoso in quel veloce scambio di battute.
“Il pelato in Italia sta facendo grandi cose, lo sai Benitez. Per questo nel mio paese c’è meno da fare che nel resto dell’Europa. Per questo ho la possibilità di viaggiare”
“Per nostra fortuna Eccellenza”
“Per la fortuna del movimento. Molti si dimenticano che il nostro non è solo un manifesto, ma tante altre cose” La voce dell’italiano coi baffetti arrivava chiara, stridente, perforante, quasi di femmina irritata. Le sue parole erano scandite in uno spagnolo semplice ma efficace, in un periodare ritmico, che trasmetteva certezze, determinazione. Assenza di dubbi.
Gli occhi dell’uomo che un ventennio prima aveva concepito un nuovo modello di pensiero artistico, che aveva canonizzato una nuova filosofia di approccio al reale, innalzando, o secondo i suoi detrattori, abbassando il livello della percezione ai parametri emergenti del nuovo secolo, sedeva davanti Esteban, senza degnarlo di uno sguardo. Non per supponenza, od ostentazione di forza. Forse solo perché era preso, trascinato, dalle sue stesse parole su un palcoscenico che considerava solamente proprio. In qualsiasi situazione, di fronte a chiunque.
Fu questa la sensazione sconcertante che ne trasse Labruna.
Il maestro di Guillermo era un uomo che si considerava sempre un passo avanti agli altri e probabilmente lo era. Senza la necessità di nasconderlo per vanagloriosa umiltà.
Si ricordò in quei minuti di silenzioso studio le parole del suo nuovo amico il giorno prima…

“Alcuni dicono – gli aveva spiegato in confidenza Guillermo, mentre addentava un’altra susina sulla costa assolata - che il maestro ora sia un uomo stanco. Che ha indagato abbastanza ed esaurito la sua missione, riuscendo a reclutare adepti che seguano il manifesto. Io non lo credo. Il nostro movimento è ora cento volte più forte di cinque anni fa…Credo, invece, che l’Eccellenza ora sia già passato oltre, sia già diretto verso altri obiettivi. Per conto di cosa o di chi non è poi così difficile immaginarlo. Basta vedere cosa sta succedendo in Italia…”

L’Italia. Ad Esteban non suscitava nessun pensiero particolare. Nessuna sua corda vibrava a quel nome di nazione. Il riferimento di Benitez era quindi caduto nel nulla: se in Italia stava succedendo qualcosa di “epocale” , al giovane Labruna non interessava. Non importava dei cambiamenti in corso in Europa, nel mondo. Non ne aveva conoscenza, non potevano interessare, in fondo, a un “finto” architetto che solo qualche giorno prima aveva sposato per la prima volta una causa. Una causa che fosse diversa. Dalla lussuria, dal godimento di corpo e di mente. Dallo sfrenato divertimento.
Ora però Esteban, in piedi alle spalle di Guillermo rimpiangeva di non essere un uomo colto. Si sentì ancora più piccolo di fronte a quel dialogo che spaziava velocemente dalla politica, alla pittura, dalla prosa, alla poesia, in uno snocciolare di nomi italiani, francesi, spagnoli che Esteban riconosceva solo per assonanza o peggio, per averli sedimentati nel ricordo involontario di accese discussioni a un tavolo delle ramblas. Un tavolo certamente diverso dal suo. Provò vergogna per i suoi 23 anni da “minus habens”.
Pochi minuti dopo l’italiano coi baffetti alzò lo sguardo. Finalmente.
“E questo tuo giovane amico? – Rese ancor più acuta la voce – Che cosa possiamo fare per lui?”
“E’ una persona fidata, Eccellenza. Un giovane che merita attenzione, crediamo. Se non altro perché ha una storia molto strana da raccontarle”
Il maestro di Guillermo sorrise e sussurrò al suo “discepolo” maliziosamente:
“Sarà. Per quanto molto di lui dirà il modo con il quale viene a dirci”. Poi alzando il tono e rivolgendosi all’architetto, disse: “Sentiamo signor…?”
“Labruna, mi chiamo Esteban Labruna. Sono un architetto, maestro” Fece il giovane avvicinandosi di qualche passo.
“Che magnifica terrà la Catalogna! – Proruppe un po’ sopra le righe l’italiano –Terra di pittori e di architetti…Mi volto e vedo un pittore, mi giro verso di voi e conosco un architetto. Un altro. Sembra che questa terra sia una terra di grandi talenti. Siete gente di ispirazione voi catalani. Non avete paura di sperimentare. Di osare. La gente giusta per me, anche se qualche volta non condivido le vostre idee. Mi sento come a casa…”
“Io sono un piccolo architetto, Eccellenza. Ma ho avuto l’onore di lavorare al fianco del più grande di tutti”.
“Antoni Gaudì” Sussurrò Benitez all’orecchio del suo maestro.
“Ah Gaudì” Fece portandosi il boulon alle labbra
“Sì, Eccellenza. Antoni Gaudì è il mio maestro”
“Mi hanno detto questa mattina che non sta bene”
Esteban si morse il labbro impercettibilmente, mandò un’occhiata d’incertezza a Guillermo, che lo ricambiò con un sorriso sereno.
“Sì. Non sta bene. Volevo parlarle proprio di questo e di altre cose e volevo..Volevo ringraziarla per il suo tempo”
“Il mio tempo non è così prezioso come si può credere, giovane architetto. Per come la vivo io la vita, ho sempre teso a raddoppiarlo. A moltiplicarlo…Non è solo una questione di velocità di azione o di rifiuto del sonno. - Sorrise esplicito - Forse è solo una questione di velocità di pensiero. Ora mi dica: come possiamo aiutarla?”

Così Esteban raccontò. Giudicando che fosse la semplicità l’arma vincente, la parola nuda, o il pensiero breve, istintivamente esposto. Se ci fosse stata una strada per fare breccia in quella che sembrava davvero la corazza di un uomo “sempre avanti”, questa non avrebbe potuto che essere la velocità. Nel riassumere raccontando, nel esemplificare le situazioni, nell’esplicitare subito gli obiettivi. Usò, quindi, poche parole. Non si abbandonò alle emozioni, non fu pietoso nel rendere implicito quel desiderio, quel bisogno di appoggio. Raccontò i fatti in cinque minuti, come li avrebbe raccontati un bambino che recita pedissequamente una poesia, o un brano di prosa classica. Non ragionò. Cerco di essere breve. Il più possibile. Fu un piccolo miracolo, perché scriteriatamente non si era preparato alcun discorso.
Partì da sé stesso, dal suo ruolo di assistente fra gli assistenti, virò su quel viscido incarico, sull’inquietante presenza dell’Eminenza, sul prolasso del suo maestro di fronte a una casa “qualsiasi”, e sulla fuga a casa di Estrela. Riportò, infine, le sconcertanti prese di posizione del prelato e le sue rivelazioni di quella mattina. Tralasciò di raccontare di quella passione per Estrela che lo rendeva uomo, ogni giorno di più. Giudicò fosse superfluo.
Quindi trasse dalla piccola sacca che si era portato, un oggetto così tanto significativo dall’avere in sé il senso di tutti quegli avvenimenti. Lo porse avvicinandosi. Lo ammirò ancora una volta ma senza distrarsi.
L’italiano coi baffetti ascoltò senza battere ciglio e in cinque minuti fu edotto. Seguì un breve silenzio, che diede tempo alla giovane donna in pantaloni neri di avvicinarsi all’Eccellenza e sostituire il boulon di cognac con un bicchiere d’acqua e limone.
Lei aveva un lineamento raffinato a incorniciare occhi scuri e profondi, pesantemente truccati. Un copro esile e sinuoso. Una grazia innaturale nei movimenti, come di ballerina che volteggiava anche scesa dal palcoscenico.
Poi l’Eccellenza parlò, facendo roteare la lampadina che il “nuovo” Antoni Gaudì aveva ornato con tre fili.
“Antoni Gaudì” Sussurrò concentrato sull’oggetto.
“Sì, è opera sua, Eccellenza”
“L’ho conosciuto tanti anni fa – riprese il maestro italiano - … Un uomo insopportabile. Dalle teorie estetiche assolutamente inaccettabili per noi…”
“Non si tratta…” Esteban si morse la lingua.
“…Sì, è evidente. Non si tratta di querelle artistiche e filosofiche. Si tratta di uomini, ora” Lo anticipò, piccato, l’italiano. “Si tratta di salvare o non salvare. Di aiutare o non aiutare. Di cimento o immobilità…”
“Io credo che Don Gaudì…”
“Sì, forse. Gaudì potrà anche rientrare in sé. In ogni caso non si sa quando. Non si sa come e soprattutto dove”
“Dove?” Fece l’architetto, spiazzato.
“Non vorrà aspettare in casa di questa donna, giovane amico? E aspettare cosa? – l’Eccellenza sorrise nell’atto di restituire la lampadina a Esteban – Non le conviene”
“Da solo…”
“E’ chiaro che, isolato, non ce la può fare…Ed è per questo che è venuto da noi, no?”
“Sì” Rispose Labruna desolato.
“Non le chiedo perché è venuto proprio da noi, architetto. Sto cercando solo di trovare una motivazione per aiutarla. Spero ci capisca. La semplice solidarietà umana noi la disprezziamo, come un orpello inutile che rallenta la società. Ne blocca il progresso. Ne ferma la crescita. Nel caso di Gaudì, poi…Beh, aggiunga anche che il suo maestro non è precisamente allineato con il nostro pensiero. – Sorrise beffardo, quasi cattivo -..Per la verità nemmeno con le nostre simpatie di pelle”
“Da uomo geniale…”
“Non esiste una ragione precisa per la quale un uomo di genio debba aiutarne un altro, ammesso che si sia in presenza di vera genialità. Lei, rischiando del proprio, aiuterebbe un altro architetto solo perché ha le sue stesse attitudini? E se questo suo omologo le fosse anche semplicemente antipatico? O peggio avesse idee pericolosamente diverse dalle proprie?”
“Non so..”
“Non lo aiuterebbe. Soprattutto perché non avrebbe nemmeno la possibilità di poterlo raccontare e quindi di esaltare la propria gloria” Si portò il bicchiere d’acqua alle labbra, senza staccare gli occhi dal giovane Esteban che rimaneva in piedi, ritto davanti a lui. Teso. Poi aggiunse:
“...Si tratterebbe di un’impresa a perdere. Uno di quei gesti fini a se stessi”
“Ma l’arte del maestro Gaudì…” Rantolò Esteban, sentendosi prossimo alla fine.
“Sì, sì. L’arte del…Come lo chiamano qui, Guillermo?…L’architetto di Dio. E’ indubbiamente importante per questa città, per un’intera corrente. Ma vede, architetto: non è la nostra CORRENTE. Non sono i nostri canoni, non è la nostra filosofia. La differenza che noi vediamo è la stessa che passa fra una linea retta e una curva. Dunque non è questa la motivazione che cerco…”
Fu in quel momento che Guillermo, rimasto in silenzio, seduto sul divanetto al fianco del proprio maestro, parlò. La sua voce ebbe l’effetto di squarciare un papiro già vergato di geroglifici, come dare un colpo a una trottola e, senza farla fermare, consentirle di girare nel verso opposto. Fu sbalorditivo, come stupefacente può essere una frase che cambia l’incedere degli avvenimenti.
Recitò a bassa voce, ma facendosi sentire con chiarezza:
Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro
Pochi secondi di silenzio e la “macchina” salvifica dell’architetto di Dio ricominciò a mettersi in moto, con nuova benzina al fulmicotone. Era la “trottola” che ora grava nel verso opposto.
“Lei è fortunato, signor Labruna” Riprese seccato l’italiano coi baffetti. “Talmente fortunato da non rendersi conto della propria fortuna”. Poi, volgendosi verso Benitez, lo apostrofò: “Ecco un discepolo che è più veloce del proprio maestro…A parte che non lo sia in motocicletta. Contro un muro”.
Benitez lo guardò impassibile, senza abbassare lo sguardo.
“Posso dunque sperare in un vostro aiuto?” Rilanciò rincuorato Labruna che aveva capito ben poco di quello scambio di battute.
“Beh, come ci ha ricordato l’amico Guillermo, sono le nostre stesse parole che ce lo impongono…Ora si segga pure. La nostra Benedetta sarà così gentile da offrirle un cognac, mentre lei ci racconterà cosa ha pensato per la salvezza del suo maestro”.

Di nuovo Esteban fu chiamato a esprimere i suoi pensieri in modo semplice, diretto, senza orpelli inutili. Con la velocità di chi ha le idee chiare, la voracità di chi ha bisogno di addentare e fagocitare certezze. La cupidigia di chi non resiste più e vuole condividere i propri segreti. I propri progetti estremi.
Lo fece, mentre il suo nuovo “tic” sembrava volesse dargli tregua e i suoi occhi si spalancavano e si serravano a fessura, a seconda del momento. Si mostrò come un fiume in piena, tentando involontariamente di coinvolgere con il proprio entusiasmo fattivo, con la propria inaspettata grinta.
Mentre raccontava da qualche minuto, Benedetta gli si era avvicinato e gli aveva porto un altro boulon pieno a metà di Cognac profumato. I suoi effluvi, mentre Labruna si sedeva al fianco di Guillermo ebbero l’effetto di schiaffeggiare definitivamente le proprie reticenze più nascoste. I propri timori più sconosciuti. Il suo “piano” era un vero piano? Se lo era domandato mentre parlava, attirando l’attenzione dei propri interlocutori. Mentre Benitez se lo godeva beato con un sorrisetto un po’ spastico, l’Eccellenza rimaneva impassibile gambe accavallate e l’unica donna presente se ne stava, in piedi, con le braccia incrociate dietro la schiena ed un espressione assolutamente asettica, nella propria bellezza. Nemmeno lontanamente afflosciata su quell’abbigliarsi ostentato da maschietto impertinente.
L’ultima parola di Esteban, coincise con il ritorno di quel tic fastidioso che lo aveva accompagnato da quella mattina. Quell’innaturale e nervoso strizzare di palpebre che lo rendeva così umano, così fragile, così terreno, rispetto alla grandezza dei propri propositi.
No. Quello non era un vero “piano”. Erano soltanto un’accozzaglia di idee e propositi, schematicamente uniti per dargli una parvenza di organicità. Quel “che” di realizzabile che avrebbe potuto coinvolgere le persone che lo ascoltavano. Avrebbe potuto, se le persone che gli stavano intorno, fossero state persone comuni. Forse.
Dopo che ebbe terminato, ci fu solo qualche secondo di silenzio, in cui nessuno si sentì di parlare. Poi Guillermo “aprì le danze”
“Il tuo piano fa schifo Esteban. Te lo dico, perché tu non possa credere di aver una qualche speranza di realizzarlo”
“Nondimeno qualcosa di buono c’è” Aggiunse serio l’italiano coi baffetti. “E non è detto che un piano astruso non abbia speranze di essere attuato e di avere successo. Dopotutto siamo a darle il nostro aiuto, proprio perché quest’impresa, come ha detto il nostro Guillermo, è abbastanza aggressiva da poter diventare un capolavoro. Casomai i dettagli…”
“Maestro, qui non si tratta i dettagli. Il piano fa ridere. Prima di tutto perché non prevede altra salvezza che quella di Antoni Gaudì…”. Benitez sembrò sul punto di irritarsi. Esteban apprezzò il coraggio che mostrava di fronte al suo maestro.
“E’ proprio questo il bello – lo interruppe l’Eccellenza -. Così non si salva altro che Gaudì. Cosa c’è di più bello?…Gli altri? Gli altri hanno la lucidità, il coraggio e la forza per fare da soli. Direi, caro Benitez, che tutto questo è abbastanza in linea con noi. Non credi?”
“Sì, maestro ma..”
“Bene, il nostro giovane architetto mostra di avere audacia e coraggio. E anche immaginazione. Capiamo che non gli importa di cosa potrà accadergli dopo. Giusto?”
“Giusto Eccellenza” Fece eco Esteban, dando un’altra strizzatina.
“Poi le coincidenze…Direi che le sue scelte di questa sera, siano state abbastanza fortunate. In quell’ambito, noi possiamo fare molto..E’ nostro territorio. Lì, possiamo aiutarla, ma fino a lì dovrà fare da solo. Avrà bisogno anche di molta fortuna. Lei è un uomo fortunato, Labruna?”
“Io credo davvero di sì”
“Speriamo. D’altra parte la fortuna aiuta gli audaci no?”
“Così dicono. Eccellenza”
“Provvederò a che tutto sia pronto per quel giorno, architetto. I dettagli potrà metterli a punto con Guillermo, se questi vorrà darle una mano. Le ripeto che a Barcellona io non posso aiutarla, dopo sì. Potrò darle appoggio. Se lo ricordi.”
“Lo ricorderò, Eccellenza. E spero di poter contare sull’aiuto di Benitez” Fece rivolgendosi al suo amico, mentre questi poco convinto, sussurrava un “Certo” di viscerale origine.
Seguì un congedo privo di fronzoli. L’Eccellenza annuì sorridendo e la donna si limitò ad allungare una mano perché Esteban gliela baciasse.
“Guillermo vai con lui. Domani mattina parleremo, prima della nostra partenza per Madrid” Disse il maestro “Ah Labruna – aggiunse poi l’italiano che Esteban era ormai di spalle verso la porta - , ci faccia sapere alla fine come se l’è cavata. Anzi, ci scriva. Ci scriva certamente. Guillermo sarà grado di lasciarle il nostro indirizzo di Milano. Resteremo in attesa. A peu prét, notre ami”

“Come me la sono cavata Guillermo?” Abbozzò Labruna, che erano appena usciti dalla hall dell’albergo. Non ottenne risposta, solo un grugnito impercettibile di malcelato disaccordo. Quasi di rabbia. “Mi spiace averti coinvolto… Speravo potesse essere una cosa che si chiudeva con l’aiuto dell’Eccellenza e dei suoi…” Incalzò, mentre il suo amico inforcava gli occhialoni, portandoseli al collo. Nella notte di Barcellona non c’era gente sulla strada. Solo un leggero vento invasivo.
“Tu non hai capito molto di questa sera, vero Esteban? E non hai capito molto nemmeno di noi…” Parlò stizzito il centauro, facendosi aggressivo.
“Ho capito quello che potevo capire e saputo quello che mi serviva…” Si chiuse Esteban
“Sì, il nostro maestro ti aiuterà”
“Appunto… E mi aiuterai anche tu, no?”
Benitez de Alphonsine, tirò indietro la testa in segno di improvviso, vero, disappunto e scese dalla motocicletta sulla quale era appena salito.
“IO sono uno dei SUOI, Esteban!…IO non ho paura di aiutarti!” Gli rilanciò, avvicinandosi minaccioso.
“IO sono quello che sbatte con la moto contro un muro..” Gli puntò il dito.
“Ma tu non sei andato a sbattere con la tua moto… Almeno non volontariamente”
“Appunto, importa che non lo avrei mai fatto…Così come non ci frega niente di Gaudì”.
“Lo immaginavo e allora…”
“Allora non ci piace impegnarci a creare un capolavoro, se sappiamo che non potrà mai diventare un capolavoro. Ti è chiaro?” Benitez sembrò tranquillizzarsi, con il suo collo che tornò a farsi taurino, corto. Il suo possente tronco si era prima irrigidito, lasciando sbucare un collo imprevedibilmente lungo in quell’arrabbiarsi a muso duro. Come quello di una tartaruga.
“Beh riusciremo a salvare il mio maestro. Ce la faremo. Il nostro capolavoro sarà quello”
“Continui a non capire. Il nostro capolavoro sarebbe stato farlo senza lasciare nessuno indietro…Ma capisco che qualcuno ci resterà, indietro. No?”
“Forse” Strizzò le palpebre Esteban, chinando leggermente il capo.
“Il “forse” non mi basta. Mi serve che almeno ci sia una possibilità. Un progetto di “ca-po-la-vo-ro”…Mi serve un altro piano. Il tuo fa schifo. Lascia pezzi di questa storia indietro. Non prevede nulla per i personaggi centrali nel quadro, non chiude la rima di una strofa…Fa VERAMENTE schifo…”
“Ah dunque…”
“Dunque ci sentiamo scoglionati in partenza” Sbuffò il pittore.
“Ma il tuo maestro era d’accordo con me”
“Per il nostro maestro, il capolavoro è solo salvare Gaudì. Tu non sei niente. O credi che lui ti ammiri per il tuo coraggio? Ora starà ridendo con Benedetta”.
“E tu la pensi diversamente, giusto?”
“Certo”
“Ti sto a cuore allora? Nonostante ci conosciamo solo da due giorni…” Sorrise imprudente
“Non essere idiota. Tu fai parte del pacchetto. Non puoi tirartene fuori. Il mio capolavoro riguarda te e Gaudì. Senza quello non c’è nessun “capolavoro”….Nessuna impresa. E non mi viene nessuna aggressività. E lo ripeto: mi sento scoglionato”.
“Sei strano Guillermo, lo sai?…Eppoi quella frase. Cos’è?”
“Vent’anni fa l’Eccellenza ha scritto una cosa che ha ispirato artisti, filosofi e politici di tutta Europa. Quello era uno dei suoi punti. Non poteva ignorarlo”
“Sei stato grande, Benitez”
“Doveva aiutarti solo per il fatto che glielo avevi chiesto. Solo per il fatto che gli hai proposto un’impresa che aveva in sé la bellezza della lotta, l’aggressività per un vero capolavoro…Io gliel’ho soltanto ricordato. Te l’avevamo detto, Esteban: l’italiano non è stanco, è solo proiettato su altre imprese”
“L’italiano? Come parli, Guillermo…”
“Parliamo come parliamo”
“Parli come una persona delusa”
“Parliamo come ci viene…Ma se vuoi sapere quanto ci piacciano i nuovi obiettivi del nostro maestro, ti dico che non lo sappiamo”.
“Ti riferisci a quello che accade in Italia” Fece Esteban, simulando di conoscere quella realtà.
“Mi riferisco al fatto che l’arte, la filosofia devono rimanere lontane dalla politica, perché rischiano di diventarne uno strumento. Non mi spaventa che ne diventino schiave nel presente, lo sono sempre state…Mi spaventa che ne diventino diretta espressione e che siano contaminate e che… E che tramontino allo scomparire di certa politica. La mia arte non voglio sia comparata ai governi, alle correnti politiche, ai capi di stato…Se fosse l’arte a contaminare la politica, tutto sarebbe migliore, il problema è che avviene sempre il contrario. Anche se l’Eccellenza non lo ammetterebbe mai..”
I due si guardarono. Guillermo sorrise amaro, Esteban annuì interdetto. Il centauro inforcò gli occhialoni e tornò a cavalcioni sulla sua moto.
“Monta ora – fece Guillermo perentorio – abbiamo ancora da chiarirci parecchio. Nel frattempo tieniti forte. Ho voglia di correre”
“Guillermo?” Chiamò Labruna, mentre il motociclista dava di manopola e aumentava la velocità fra le strade deserte di Barcellona.
“Dimmi”
“Prima hai parlato per qualche secondo in prima persona…” Fece ironico
“Tu invece hai strizzato gli occhi almeno dieci volte” Rispose Benitez, serio.
Ad Esteban parve un compromesso onesto, mentre gli sembrò di diventare il padrone di un intera città. La sua. Si disse che anche quella era dalla sua parte.